E io lo sento che qualcosa è iniziato, lo capisco bene, lo percepisco da ogni sfumatura che la giornata mi offre. Oggi è il gran giorno, lo so. Oggi ho bisogno di tutte le mie energie, della mia carica di riserva, di ogni più infinito regalo che sia in grado di offrirmi il corpo nella sua interezza. Oggi è il giorno della gara della mia vita. Devo vincere, devo farlo, sono anni che mi alleno. Anni di sudore e sacrifici, anni a correre per ore come un matto, sotto le intemperie più assurde. Come quella volta che mi allenai sotto la neve. Mia madre, rientrando la sera dopo il turno in fabbrica, mi trovò delirante. Stetti una settimana a letto, gran parte della quale a causa delle natiche indolenzite, spellate e sanguinanti, perché mio padre non l’aveva presa granché bene. Chiudo gli occhi e prendo forza, lei è sulle gradinate, potrebbe vedermi, potrebbe accorgersi di me. È la volta buona, lo sento. Mi sento uno stupido in questa tuta sgargiante, larga da far paura, ma intanto la pressione del risultato inizia a mettermi paura. La storia è fatta anche di sconfitte, in fondo. Respiro. Respiro ancora e lo faccio profondamente, con calma. Faccio fuoriuscire l’aria pian piano. Il corpo deve assumere padronanza di sé. Self control. Facile a dirsi quando si è dall’altra parte, ma sentire i battiti che aumentano, le tempie pulsare a ritmo caraibico, non aiuta di certo.
C’è questa brezza che mi aiuta, soffia dalla sua parte, sento il suo profumo, sarei invincibile se solo lei si decidesse a dare un cenno.
Alzo la testa, il ragazzo che mi è vicino è alto e forte, ma io sono Pietro non posso deludere le aspettative, io sono la roccia e sono uno dei pilastri della religione, su di me si pongono speranze ataviche.
Sono pronto, sento ogni muscolo e li gestisco come fossimo entità separate, li contraggo e li rilasso. 19’’72. Ce l’ho inciso nelle carni, 19’’72. L’ho visto correre come il vento, nonostante fosse sgraziato d’aspetto. Corre con la rabbia dentro, la percepisco, corre come farebbe un cane chiuso in gabbia per anni, lui corre, corre, corre.
Sulla griglia di partenza, in ginocchio.
Sento i suoi occhi puntati su di me, il suo profumo mi giunge e del suo ricordo io non dormo più. Non oggi, non ora. Adesso è tempo di calzare il ritmo della saetta.
Esplode il boato e il tempo si ferma. Tutto intorno è solo silenzio ammorbato dal ritmo delle mie Superga. Non sento i battiti, tutto è confuso fra cuore, sangue, muscoli e rabbia. Le gocce di sudore si mescolano con la lieve pioggerellina, le mie gambe si alternano come fossi una iena. Ghepardo, sì, mi sento un ghepardo e sono leggero come una farfalla.
Giro di boa, sono a metà percorso e sono secondo, il tizio che mi era affianco, quello alto, è davanti. Non perderò a causa sua. Tutto, ma non posso essere umiliato anche nella gara dai tizi alti. I miei complessi di sempre.
Sono veloce, posso farcela, chiedo di più, aggredisco la polvere e mastico rabbia. Io.
Mantengo il ritmo, brucerò le ultime calorie quando sarà necessario, sorprenderò l’avversario, quello alto.
Cede, di poco ma inizia a cedere, lo vedo, non sta bluffando. E’ arrivato il mio tempo, aumento il ritmo, anche se sto per perdere il controllo. Mi è affianco, non è più così alto. Lo guardo e mi fa pena: sono incontrollabile.
Ultima decina, lancio l’offensiva, nessuno come me, lei ne sarà fiera. Ultimi passi, lui mi guarda le spalle.
10’’08. Ho fermato il cronometro su un gran tempo, i miei ottanta metri li ho conclusi con onore e senza fiato, li ho conclusi come ho finito tutte le mie energie. Un urlo liberatorio riempie l’aria e mi giro verso le gradinate per cercare i suoi occhi.
Lei è impegnata al telefono. Solo il suo nuovo ragazzo mi sta battendo le mani.