Il Led pullulava di emozioni, qui gli avventori erano senza maschere e i volti erano quelli veri, non c’era spazio per una seconda vita: già la prima era alquanto trasgressiva.
Io faticavo, e non poco, a capire come poteva evolversi la loro gestualità sotto la luce del sole, ma questo passava in secondo piano, mentre i cicchetti di Michael, the king, scivolavano lesti sul bancone in plexiglass bianco. Qui la tristezza era bandita, qui tutti amavano tutti e di quanti, passando, guardavano sottecchi, agli astanti non importava un fico secco.
Le risa erano contagiose, specie quelle di Daniela, sguaiate e sincere. Gianluca, a suo modo, era geloso di quanti la corteggiavano. Gli occhi di lei parevano tristi e le sue palpebre un tantino calate, al pari di quelle di Mina. I capelli mossi facevano da splendida cornice ad un viso favoloso. L’età non contava. Qui, in realtà, non contava null’altro che la necessità di apprezzare la vita, l’attimo che passava, lasciando una traccia indelebile sul proprio corpo.
Marika viveva di sogni, proprio come il suo carattere, come la spensieratezza che la circondava ogni qualvolta sorrideva dietro i suoi begli occhi chiari. La notte regalava emozioni, in quest’angolo di cielo. Giorgia ne era consapevole.
Un ragazzetto fece per entrare, ma l’imbarazzo nei suoi panni di etero, incontrò la vergogna dei vent’anni. Provò a chiedere a qualcuno che stazionava vicino l’ingresso, voleva sapere se un suo amico fosse dentro. Il perbenismo ebbe la peggio, in quel frangente, e l’imbarazzo, mentre si faceva spazio fra i ragazzi, rasentava il ridicolo.
Alla ragazza al mio fianco, vestita senza affettazione -come tutti gli altri, del resto-, le venne chiesto come stava. La risposta gliela lessi negli occhi, schietta e sincera. Non abbassò lo sguardo mentre esclamava: bene, tranquilla, da Dio direi.
Ma quel Dio faticava a capirle, quel Dio non era di casa, al Led, quel Dio le condannava senza riserva.
Poco più avanti, a poche centinaia di metri, in un altro locale cool, si sviluppava la solita routine prodotta dal capitalismo. Decine e decine di ragazzi si accalcavano, nei loro vestiti ricercati, cercando di procurarsi un posto in bella vista nel palcoscenico delle amenità. L’auto favolosa, lucidata in ogni dove, con le canne cromate dei cilindri, li aspettava fuori, come li aspettava al varco quel bollettino a fine mese che non lasciava possibilità di respirare un vita vera e decente.
Qui tutto era apparire, tutto pareva virtual e non si accorgevano che il giorno a venire si sarebbe beffato di loro, quando sarebbero tornati ad indossare i panni dell’impiegato sottopagato da seicento euro al mese.
A poca distanza, sotto lo stesso cielo, si consumavano due vite differenti e una delle due veniva condannata dalla “società civile”.
L’amore si paga a caro prezzo.
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