Ci sono giorni in cui aspetto la vita. E la attendo chiuso in un angolo a segnare, tacca dopo tacca, l’irrevocabilità del fato. Quella mattina, non una come tante ma proprio quella specifica in cui il risveglio doveva essere segnato da moine e sospiri, quella mattina, subito dopo la sveglia -che giunse come un fendente dietro la nuca- cercai i vestiti e, senza fare rumore, a luce spenta, uscì di casa. Non la baciai neppure.
Di questo me ne accorsi dopo tanto.
È in quel frangente che realizzi ciò che sei divenuto e ciò che eri. In quel frangente ti rendi conto che la tua vita è cambiata, che c’è stato uno strappo e quella lacerazione la porti dentro come fosse stata congenita e non aspettava altro che palesarsi.
Quella mattina lei era ancora distesa e le sue forme carezzevoli di donna mia e amata mi circondavano di gioia sottile. I suoi fianchi rotondi come fossero una mela acerba, mi profumavano di religiosità pagana e io mi sentivo peccatore e amante. Amato. Già lo sguardo mi saziava, ma i miei occhi non volevano essere complici del distacco.
Il distacco avviene silente, un moto perpetuo costante, ti accorgi che sei solo, quando i giochi sono fatti. Ti accorgi che sei solo, che è già domani.
Quello che avevo dentro, ormai, era un sentimento convulso quasi fosse amore e vomito. Insieme convivevano da tempo e insieme si laceravano a vicenda. Lascivia e voluttà, una danza dell’orrore che non aveva fine come fossero dei dervisci inarrestabili nella loro danza turca.
Squallida vita e squallido amore. Amore, amata. Amore e morte, Eros e Thanatos. E come Orfeo, feci. Volli amarla e chiesi di avere la mia Euridice.
Poi mi voltai sull’uscio a guardarla.
Dei tuoi occhi e delle mie mani è composto il cielo,
di nuvole di sogno e di poesia,
come questa sera di fine estate
che va via portandosi dietro
i profumi dei tuoi baci di erba fine
e del tuo essere mela.
Delicata mela verde