“M’interessa molto capire, in questo libro, come esattamente l’ Autore ha vissuto il rapporto tra la campagna delle natie Marche, questo mondo al tempo stesso così magico, panico, e così denso di vita lavorativa, altamente faticosa (quand’io ero giovane, la maggior parte dei contadini purtroppo non sfuggiva a fastidiosissime ernie del disco), e la realtà, a dir poco complessa, d’una città come Roma, sia pure la Roma degli anni ’50- ’60”.
Così Franco Ferrarotti, novant’anni compiuti da pochi mesi, “decano” dei sociologi italiani, ha aperto, alla Biblioteca di Storia Moderna di Via Caetani, la presentazione di “Deposito bagagli” di Luigi Fenizi, funzionario del Senato, storico e scrittore, già collaboratore di varie testate di area riformista. Un libro (Scienze e Lettere, Roma, 2016, €. 18,00) che non è solo un’autobiografia, nettamente divisa in un “prima” e in un “dopo” (evento spartiacque, la grave malattia che nel 1991 ha colpito l’Autore, limitando fortemente le sue capacità deambulatorie e le sue facoltà di relazione con gli altri). Ma è anche una riflessione complessiva sui grandi temi dell’esistenza (il rapporto vita-morte, la ricerca di Dio, il lascito spirituale che trasmettiamo ai nostri cari e, più in generale, al mondo): in chiave sempre profonda e, al tempo stesso, leggera e autoironica. Al tempo stesso, il libro è una cavalcata in settant’anni di storia italiana: da quell’aprile del ’44 che, poco dopo l’eccidio delle Fosse Ardeatine, vede i genitori dell’Autore fuggire da Roma occupata nelle natie Marche (dove Luigi nascerà di lì a poco, a Falerone, provincia d’ Ascoli Piceno), sino ad oggi. Settant’anni che Fenizi rivede con la lente della nostalgia, ma anche con preciso senso critico: emblematico, ad esempio, il suo giudizio di riformista sul ” ’68 e dintorni”, logica esplosione libertaria, ma anche pericolosa incubazione di rivoluzionarismo fine a se stesso, sino al terrorismo sanguinario. Proprio della più illustre vittima degli “Anni di piombo”, Aldo Moro, Fenizi sarà studente alla “Sapienza”, facoltà di Scienze Politiche. Mentre nei primi anni ’70, da giovane funzionario presso la Commissione Bilancio del Senato, ha modo d’avvicinare figure come Antonio Giolitti, Ugo La Malfa e l’anziano Ferruccio Parri, il leggendario Maurizio della Resistenza.
“Ma tra i suoi incontri”, ha ricordato Roberto Cipriani, docente emerito di Sociologia della Religione a Roma 3, “ecco anche Herbert Marcuse (che nel luglio del ’68 parla in un teatro dell’ Eliseo gremito sino al’inverosimile), Sartre e Simone de Beauvoir (intravisti, ormai pseudorivoluzionarie ombre di se stessi, in una settembrina serata del ’76 a Piazza Navona); YasserArafat, armato sino ai denti, in una delle sue visite al Senato italiano. Ecco Giulio Seniga, il “cassiere del PCI”: protagonista, negli anni ’50, della celebre fuga con fondi e documenti segreti del partito, già uomo di Pietro Secchia, e poi molto vicino all’ ex-comunista Ignazio Silone”. “Colpisce poi, in quest’autobiografia”. ha sottolineato Mauro Contili, segretario generale dell’ Università anglo-cattolica “San Paolo apostolo”, ” la capacità dell’ Autore di sopportare stoicamente, da laico, le sofferenze legate alla sua grave malattia: capacità senz’altro potenziata dalla vicinanza delle persone a lui piu’ care, ma comunque non inferiore a quella d’un vero credente”.
“C’è infine, in questo libro”, ha ricordato Giuseppe Averardi, senatore emerito, già direttore della testata “Ragionamenti Storia”, “l’ irrompere della storia con la “S” maiuscola. Come quando un giovanissimo Luigi, ad agosto del ’64, s’imbatte, lui all ‘epoca digiuno di politica, negli oceanici funerali di Palmiro Togliatti, tra Santa Maria Maggiore e San Giovanni: riportandone un’impressione fortissima, determinante per il suo successivo interesse a politica e storia. O quando, negli anni ’80- ’90, grazie alle testate d’ area riformista ha modo di conoscere vari esponenti del Dissenso dell’ Est, cecoslovacchi ( come Jiri Pelikan, direttore della tv ceca al tempo della “Primavera di Praga”) e anche ungheresi, tra cui addirittura reduci della tragica rivoluzione dell’autunno 1956″.
FABRIZIO FEDERICI