di Alberto Zei
Roma – Riprendendo i contatti nel campo dell’archeologia comparata tra gli studiosi del periodo della civiltà etrusca del Lazio, Umbria e Toscana e delle regioni celtiche fino al Golfo di Lione, sono stati fatti ulteriori passi in avanti, adesso in Sardegna con la conoscenza di reperti particolari comuni. E’ ora pertanto possibile apprezzare dei significati reconditi discreti che erano ritenuti fino adesso, soltanto ritenuti delle singolarità. Se non si fosse proceduto con questo tipo di raffronto qualitativo tra i vari reperti, probabilmente le conoscenze sarebbero rimaste ancora tali e quali. La nuova interpretazione analogica che scaturisce alla luce delle recenti iniziative conoscitive, fa chiaramente vincere il comune intento artistico e simbolico di quella lontana civiltà, rivolto con particolari rappresentazioni reverenziali, alle proprie credenze religiose.
Questa volta le indagini conoscitive sulla grande civiltà del passato remoto, hanno coinvolto anche la Sardegna in cui le popolazioni primitive, numericamente molto contenute, si relazionavano tra di loro o in pace o in guerra per le solite questioni economiche e commerciali. Ma la matrice comune di maggiore capacità di legame tra quei popoli di primordiale credenza religiosa, consisteva nel rispetto e nel timore dell’aldilà a cui venivano dedicate una gran parte delle opere monumentali evocative e delle ricchezze sicuramente artistiche ma anche economiche per ingraziarsi la protezione degli dei nella vita e dopo la morte.
Si tratta ora di apprezzare la comparazione di queste opere simboliche del passato che prese a sé stanti, non avrebbero dato all’interpretazione artistica di quel luogo che un significato settoriale. Mentre attraverso approfondimenti di archeologia comparata, questa volta con la Sardegna, si è potuto riscontrare che tra i popoli di quel tempo e in particolare tra quelli agevolati dalle comunicazioni marittime, questi avevano assimilato tra loro gli stessi costumi e gli stessi simboli religiosi rappresentativi della grande forza di coesione che le religioni soprattutto primitive, avevano in comune. Il raffronto è avvenuto tra le scoperte monumentali di carattere sepolcrale in Sardegna corredate di stele e l’ipogeo di Marciana in cui la stele raffigurata comprende la parete di fondo tra le due camere laterali.
La forza della persuasione – Sull’ipogeo etrusco di Marciana, come si ricorderà dalle recenti cronache, ci sono due diverse opinioni: una riconosce quel luogo come una Zecca del principato di Piombino in epoca indefinita tra il medioevo e Rinascimento; l’altra invece vi ravvisa una monumentale architettura sotterranea etrusca.
Ora, per quanto riguarda i sostenitori della tomba etrusca, vi è da dire che, se da un lato è vero che i numerosi indizi a favore non costituiscono prova assoluta della veridicità sull’origine del manufatto, dall’ altro, su quello della Zecca, è ancor più vero che vi sono delle ipotesi che non riuscirebbero a convincere neppure Cappuccetto Rosso.
In questo contesto di stallo della situazione che ha caratterizzato tanta animosità dialettica tra i diversi sostenitori, la maggior parte dei lettori interessati all’argomento è rimasta alla finestra in attesa di vedere almeno profilarsi all’orizzonte qualche barlume di definitiva chiarificazione sugli equivoci ingenerati.
Va sottolineato che, effettivamente, i sostenitori dell’ipotesi del sepolcro etrusco, hanno illustrato e sostenuto i loro punti di vista con argomentazioni quantomeno logiche e attendibili, e al tempo stesso, hanno rilevato una pluralità di inverosimiglianze per le quali questo “sprofondo” nella viva roccia granitica non potrebbe essere in alcun modo concepito come una zecca, neppure a livello di pura congettura.
Coloro che, invece, hanno ritenuto di individuare nell’ ipogeo una fabbrica di monete, poco o niente hanno detto a dimostrazione che quel luogo fosse stato scavato nel passato per tale scopo, così come vorrebbero, per volontà dei Principi Appiano al fine di ottenere una caverna con funzione di coniazione di monete nel proprio Principato. Infatti, l’impegno da loro profuso fino adesso è stato indirizzato solo a mostrare, piuttosto che a dimostrare, che l’ipogeo non rappresentava alcun sepolcro etrusco ma che casomai, si sarebbe trattato di una cisterna, oppure di una neviera; e ciò nonostante che, in tal caso, il tipo di architettura per questo genere di funzione sarebbe da raccapriccio, a prescindere poi dagli effetti tossici della stagnazione delle acque prive di drenaggio che già nel medio termine inizierebbero a imputridirsi.
Con il passar del tempo, come di consueto avviene, gli argomenti a sostegno delle “realtà” romanzesche si assottigliano con l’acquisizione di particolari delle vicende; al contrario, le prove sulla realtà dei fatti si acquisiscono proprio con i dettagli che prima erano sfuggiti. Non fa eccezione il caso dell’ipogeo di Marciana: le peculiarità del sito ne accentuano il valore provante. Mentre, circa l’esistenza della zecca, emerge una serie quasi interminabile di dettagli contraddittori sulla plausibilità che quel luogo possa essere non soltanto realizzato, ma anche utilizzato in seguito, come luogo di coniazione di monete, di converso le progressive nuove conoscenze di particolari costruttivi di questo manufatto arricchiscono di veridicità l’ipotesi della tomba etrusca, divenuta ormai, più che un’ipotesi, una quasi certezza.
Una maggiore concretezza – A convalida della tesi che vede nell’ipogeo di Marciana un manufatto etrusco, si riportano le immagini di archeologia comparata pubblicate in questi giorni dal prof. Michelangelo Zecchini sul sito web Academia.edu all’interno di un saggio con un titolo eloquente: “Isola d’Elba: gli Etruschi negati nel nome di zecche e neviere. Il caso dell’ipogeo di Marciana”. Si tratta di immagini di tre stele antropomorfe, simulacri che, secondo le ricerche di eminenti studiosi, riproducono divinità dell’oltretomba poste a sentinelle di tombe (soprattutto monumentali) a tutela del riposo eterno dei defunti.
Due di queste sono state scoperte a Oragiana e Pischinainos, in Sardegna, a corredo di grandi sepolcro chiamati ‘Tombe dei Giganti’, l’altra, appiattita e appena rilevata rispetto alla roccia granitica, costituisce sostanzialmente la parete di fondo dell’ipogeo di Marciana, alla fine del dromos. Si tratta, come ben si vede in figura, di una sorprendente verosimiglianza delle fattualità stilizzate dei tipici guardiani dei sepolcri, riconoscibili per la forma monumentale antropomorfa con due cavità che rappresentano gli occhi, presso l’estremità distale (testa).
Queste figure di divinità (non si sa se femminili o maschili) si ergevano a difesa dei sepolcri. Secondo credenze magico-religiose, con le loro cavità oculari, in luogo degli occhi fissi, sempre indirizzate verso eventuali profanatori, dovevano incutere timore reverenziale da far desistere gli stessi dal sacrilegio. In caso contrario, infatti, osservati e riconosciuti avrebbero poi subìto il relativo
castigo per la loro empietà. Ora, facendo una comparazione estesa anche ad altri reperti riconducibili a manufatti con caratteristiche comuni tra di loro, si riporta all’attenzione dei lettori le seguenti riproduzioni di immagini che dovrebbero dimostrare l’attuale livello dei comuni riscontri tra queste.
Le stele (denominate betili) sarde di Oragiana e di Pischinainos si comparano abbastanza agevolmente per la loro stretta somiglianza con quella dell’ipogeo etrusco di Marciana, sulla cui genesi e
Ipogeo di Marciana
funzione alcuni intenderebbero ancora discutere. Dalla osservazione proprio di tali particolarità, si evidenziano invece, in virtù del confronto tra le immagini qui riportate, sorprendenti caratteristiche comuni.
La tomba etrusca di Castellina in Chianti ha una planimetria del tutto simile, orientamento cardinale compreso, a quella di Marciana; così come i graffiti della volta della tomba sarda di S. Stefano di Oschiri, mostrano le caratteristiche analogiche con quelle che ancora restano, tracciate nelle pareti dell’ipogeo di Marciana. Di contro né la tipica pianta della neviera di Masi Torello (Ferrara), e tanto meno la planimetria della zecca di Lucca del XVI secolo, potranno mai avvicinarsi come somiglianza architettonica a quella dell’ipogeo di Marciana, né potranno mai essere trovati argomenti a sostegno della loro anche casuale coincidenza.
Ma senza essere degli esperti, anche con il semplice buon senso, ben si comprende come le analogie strutturali architettoniche tra le stele sepolcrali del territorio di Oristano, la comparazione con la planimetria della tomba di Castellina in Chianti, le incisioni tracciate sulla parete dell’ipogeo di S. Stefano di Oschiri, nonché la struttura interna dello stesso ipogeo, purtroppo oggi allestito come zecca, non diano gran margine a ipotesi diverse dall’ unica verosimile per motivazioni logiche nonché per quantità e qualità di indizi, ossia quella di architettura funeraria etrusca.
Viene in mente a proposito una lettera del Prof. Francesco Mallegni, apparsa qualche tempo fa sui quotidiani dell’Elba. Il noto docente ordinario di Antropologia all’Università di Pisa, commentando le diverse supposizioni sulla natura dello stesso ipogeo, anche da lui ritenuto un mausoleo etrusco di notevole valore, iniziava in modo significativo e lapidario con il proprio dissenso sulle altre ipotesi: “Ma che zecca, ma che neviera!”