Al teatro “Quirino”, sino al 2 aprile , il “Teatro della città” di Catania mette in scena, per la regìa di Giuseppe Di Pasquale, “Erano tutti miei figli” : dramma tra i piu’ celebri di Arthur Miller (qui nella traduzione di Masolino D’Amico), premio Tony Award 1947 per la miglior opera teatrale.
“Erano tutti miei figli”, seconda opera di Miller, precedente i piu’ noti “Morte di un commesso viaggiatore” e “Uno sguardo dal ponte”, e anch’essa fortemente centrata sui temi sociali, è del 1947. Chiaro il rapporto di questo dramma , piu’ in generale, con lo storico filone di denuncia sociale tipico della letteratura americana dagli anni ’10 in poi, solo apparentemente interrotto dal turbine della Seconda guerra mondiale: e forte di scrittori e giornalisti come Jack London, Dos Passos, Hemingway , Ezra Pound, e di sociologi come Thorstein Weblen ( la cui celebre “Teoria della classe agiata” sarebbe stata tradotta in italiano,da Franco Ferrarotti, nel 1949, solo due anni dopo l’uscita di questa pièce milleriana).
L’ Autore affonda il coltello nel marcio della società USA dell’immediato dopoguerra, piena di imprenditori senza scrupoli arricchitisi – con l’alibi del patriottismo – grazie all’ ondata delle forniture militari del ’41-’45. Uno di questi è Joe Keller ( un grande Mariano Rigillo), colto da Miller nella sua vila di campagna, in un fine settimana. Ma è un “interno borghese”, questo di casa Keller, solo apparentemente tranquillo, percorso in realtà da vari drammi: come anzitutto la perdita del figlio Larry, disperso in guerra, nei cieli della Birmania, ormai da tre anni ( e alla cui morte, ormai quasi certa, testardamente non vuole credere la madre, un’altrettanto brava Anna Teresa Rossini). Grazie all’ intervento della giovane fidanzata ( che era già stata legata ad Harry), l’altro figlio di Joe scopre come il padre, industriale, per accrescere i suoi profitti, durante la guerra abbia venduto parti d’aereo difettose all’ aeronautica militare, causando così la morte di 21 piloti (tra i quali, forse, anche il figlio).
Il Joe Keller di Miller, dunque, incarna una “minaccia” per la società non solo per quel che ha commesso (che è gravissimo, avendo causato, poi, anche l’arresto e la detenzione del suo socio, finito col fare da “capro espiatorio”), ma soprattutto perché rifiuta d’ ammettere la sua responsabilità civile, convinto che un certo grado di illegalità sia necessario per l’andamento dell’economia. Un dramma attualissimo (l’autore stesso lo definì “un’opera destinata a un teatro dell’avvenire”): come non pensare, infatti, sentendo le battute di Joe, agli imprenditori che anni fa, incredibilmente, gioivano per telefono alla notizia del terremoto de L’Aquila, (foriero di lucrosi appalti per la ricostruzione…!)? O a Norberto Confalonieri, il primario milanese, ora agli arresti domiciliari, capace, il 22 marzo 2016, di giustificare, al telefono, la rottura d’ un femore «di un’anziana paziente settantottenne» che, a suo dire, gli serviva per allenarsi in vista d’ un intervento privato che avrebbe effettuato poco più d’ una settimana dopo… Mentre il suicidio finale sembra precorrere sinistramente la sequenza di suicidi di imputati “eccellenti” della nostrana Tangentopoli.
Filippo Brazzaventre , Barbara Gallo, Enzo Gambino, Liliana Lo Furno, Giorgio Musumeci, Ruben Rigillo, figlio di Mariano ( nel ruolo del figlio minore di Joe) Silvia Siravo, gli altri interpreti. Scene ( semplici ma essenziali) di Antonio Fiorentino, costumi ( molto curati, in stile anni ’40) Silvia Polidori.
Fabrizio Federici