Ieri, davanti alla Feltrinelli di Via Appia, dopo i minuti di attesa in fila e i controlli di routine fatti dagli uomini della sicurezza, ho maturato l’intima convinzione che fosse doveroso scrivere qualcosa riguardo a ciò che avrei ascoltato, fossero anche poche righe. E questo sebbene, di fronte a volti celebri della politica come il Presidente del Senato Grasso, giornalisti come Lirio Abbate e scrittori quali Roberto Saviano, sia facile sentirsi fuori luogo e apparire dispensatori di luoghi comuni e di sterili complimenti di circostanza.
Ma “Storie di sangue, amici e fantasmi”, scritto da Pietro Grasso, a venticinque anni dalle stragi di Capaci e via d’Amelio, è un libro a misura d’uomo, non d’eroe. Perché esseri umani, in carne d’ossa, furono vittime del sangue che si versò a Palermo in quegli anni e perché suoi amici, i magistrati, gli avvocati, i poliziotti, gli uomini della scorta, le madri di famiglia, i preti e i giornalisti che pagarono con la vita.
Persone, si legge nelle prime pagine, che rientravano a casa la sera dalle loro famiglie, programmavano le vacanze con gli amici, e che da un giorno all’altro sono mancate per sempre, lasciando sedie vuote a tavola, a pranzo, a cena, nelle occasioni di festa e in quelle tristi. Il dovere storico però è di tornare nel venticinquennale della loro morte, a celebrarne la vita e a trasformare le sensazioni di un singolo in conoscenza collettiva, slancio etico e rilancio morale contro l’indifferenza e la rassegnazione di chi fa finta di non sapere.
Di tutte queste storie, racconta Lirio Abbate, Pietro Grasso è l’anello di collegamento: lui si occupò del delitto di Piersanti Mattarella, lui come giudice a latere nel primo Maxiprocesso a Cosa Nostra, inventò soluzioni innovative per problemi mai presentatisi prima, come verbali d’udienza da redigere in tempo reale o l’appello nominativo degli imputati da trasformare in un registro delle presenze. Anche lui quel tragico 23 maggio, sarebbe passato sul tratto di autostrada che collegava Punta Raisi a Palermo, imbottito di cinquecento chili di tritolo, se solo il giorno prima Falcone non lo avesse chiamato per avvertirlo del suo ritorno con un giorno di ritardo.
Queste duecentotrentaquattro pagine hanno, come ha spiegato Saviano, due vie d’accesso: la prima analitica, di sintesi di temi che sono rimasti centrali nel dibattito avvenuto negli anni successivi, e la seconda emozionale. E’ il diario di un uomo che mette a disposizione di tutti i ragazzi nati dopo il 1992 gli ideali di una vita e rende omaggio ai suoi due compagni d’avventura, Giovanni e Paolo, con due lettere, poste rispettivamente all’inizio e alla fine del libro.
“Un impegno strano”, lo definisce l’autore, contribuire a costruire il loro mito e al contempo demitizzare i simboli che sono diventati, amalgamando ai racconti cruenti di lotta alla mafia, aneddoti di vita quotidiana; di quando, ad esempio, Giovanni decideva di venire a cena e chiedeva la minestra di riso e broccoli “perché era periodo”o di quando Paolo lanciava molliche per gioco verso i colleghi più seriosi che fossero a tavola . Da questi racconti, appaiono per quel che erano: non supereroi dotati di poteri soprannaturali, ma dei fuoriclasse d’umanità alimentati di una linfa, vitale quanto rara: il senso dello Stato. Lo stesso senso per il quale vinsero grandi ostacoli come l’organizzazione in pochi mesi di un processo che fu per la prima volta a gabbie piene, a telecamere accese e che si svolse nel rispetto del diritto, smascherando chiaramente i volti di Cosa Nostra; il senso dello Stato, per cui sopportarono l’isolamento di giornate blindate in camere di sicurezza, le ferite per le insinuazioni di chi li accusava di presenzialismo negli studi tv, il senso di colpa per il coinvolgimento dei propri familiari e degli uomini della scorta e la consapevolezza di essere, come detto da Cassarà “cadaveri che camminano”.
Le parole dell’uomo di Stato lasciano spazio alla spontaneità del protagonista e del testimone diretto, dell’uomo che cela tra le righe, indirizzato ai suoi amici, un doloroso “Perché voi e non io?”Sta di fatto che diversi cittadini cominciano a voler riprendere in mano le terre confiscate ai boss mafiosi, sta di fatto che molti giornalisti denunciano il malaffare accettando la scorta e che intere famiglie rifiutano di comprare dove pagano il pizzo: la strenua marcia verso la legalità iniziata venticinque anni fa, continua e non può essere fermata.
Uscendo dalla Feltrinelli di Via Appia, dopo un’ora di dibattito tutto è avvolto da un clima di sospensione misto a commozione: quella gente che era entrata perché curiosa di sentir parlare di campioni d’eroismo lontani dalle loro vite, li ha sentiti incredibilmente vicini a sé. Queste sono storie di sangue, amici e fantasmi che fanno sentire coloro che le leggono, più vivi, più cittadini. Più umani.