Di noi mi limiterò a dirvi poche cose… perché poche cose sapevo.
Ero probabilmente sopra le righe quel giorno di un mese freddo come pochi, pioggia fastidiosa e tramonti fragili.
Vi posso dire che non c’era nulla che non andava… a parte me.
Sopra le righe, sconvolto da emozioni e atti incondizionati, fantasie di perversione, istinto animale.
Qualche bicchiere di troppo nella solita bettola infognata, per bene, al centro della città.
Era frequentata da quelli che chiamo “poveri diavoli”: volti segnati, bocche storte, pelle dura,
sguardo di chi guarda sempre fuori dalla finestra, non per paura, ma per astuzia…
per il gusto di rimanere acuti osservatori del nulla.
La ragazza era senza dubbio bella, con le gambe formose, come il seno e le labbra, gli occhi grandi
ma non troppo come le mani, segnate da mille linee che nessun cartomante avrebbe mai potuto decifrare.
Di quella volta poi che dire… forse sarebbe riduttivo prendere in prestito la parola ” bello”, perché forse è stato qualcosa di più. Per le parole da dire dopo non avevo scuse, di conseguenza iniziai a leggere un libro
come si fa dopo una qualsiasi parentesi d’amore che ti riempie ma allo stesso tempo ti svuota.
Sarei voluto rimanere sotto le coperte di quella città che conoscevo appena, la osservavo da quel tetto
e per quanto assurdo, tutte le città, viste dall’alto, hanno un qualcosa di bello e romantico. Ma non basta.
Tra le mille sigarette fumate provavo un senso di inquietudine giovanile di chi non lo sa mai… che infondo
è vero che non si sà mai.
Detto ciò, lei rimase nel letto girata di spalle tipo un quadro di un qualche autore spagnolo dei secoli passati.
La radio accesa per finta rimandava melodie lontane una vita, che però erano dolce colonna sonora in quei secondi di niente.
Tristezza… no, impossibile averne. Felicità? troppo facile, troppo falso.
Si accarezzava le braccia mentre io tranquillo mi disfacevo di problemi e pensieri ingordi di domande, di quella pioggia fastidiosa che mi aveva martellato piano la testa quasi come una tortura cinese.
Ma in quel momento solo Dio sa quanto l’avevo amata.
Il suo corpo, una geometria semplice, quasi elementare e forse in seguito capii perché non usammo più nessuna parola dopo aver fatto l’amore…
Entrambi conoscevamo la potenza delle parole, la sfrontatezza, la cattiveria, la dolcezza e la rabbia, tutte cose che non possono coincidere tra di loro e quindi automaticamente si scontrano senza farsi problemi di nessun tipo.
Questa è solo una pagina di diario strappata a metà della quale potevo dire molte poche cose…
perché poche cose sapevo di noi.
*di Marco Amoroso, a cura di Silvia Buffo
Come ogni sabato notte, fra una cosa è l’altra, mi riservo un momento intimo e di evasione per questa rubrica che vuole essere letteraria: perdermi nelle belle parole scritte da Marco Amoroso e si fa fatica a pensare che siano battute sulla tastiera di un pc. Fascino antico: tanto. Maggiore fascino se si pensa che Marco ha ancora ventitré anni. Le sue parole sembrano come scritte a macchina, lui descrive così delle immagini di vita, come fossero fotografate con una grazia perfetta, messe a bagnomaria e poi riportate alla luce lentamente in una palingenesi di primordialità che non può che configurare malinconica bellezza.
Con molto amore mi prendo cura di queste parole, velate di quasi eternità. Anche qui ne “Il tramonto dell’alba”.