È innegabile che quella che stiamo vivendo sia un’età dell’oro per le serie tv, che stanno pian piano diventando sempre più complementari rispetto ai prodotti cinematografici. A livello di costi di produzione, di ricavi, di spettatori polarizzati, stiamo parlando di cifre importantissime per quello che una volta era considerato un settore di nicchia. E bisogna dire che anche l’Italia, nel suo piccolo, sta facendo la sua parte. Accodandosi con quanto sta succedendo nel mercato internazionale, anche i produttori nostrani, spesso con la partecipazione di colossi dell’intrattenimento mondiali, stanno sfornando progetti interessantissimi. Per quanto la maggior parte delle produzioni seriali italiane siano ancora incentrate sul mantenimento di un certo tipo di pubblico (per capirsi meglio: quello della televisione generalista, appassionato all’altissimo tasso di criminalità di Gubbio) qualcosa si sta muovendo. Romanzo Criminale e Gomorra su tutti, solo per citare i due esempi più palesi, hanno dimostrato che anche nel nostro paese vale la pena
investire su qualcosa di diverso, marcatamente italiano ma con forti influenze americane. Ma dov’è che è iniziato tutto? Quale è stata la prima serie italiana “nuova”, capace di mostrare qualcosa che andasse oltre i medici in corsia ed i carabinieri? C’è stato un punto in cui si è pensato che, per fare un prodotto seriale di qualità, si potesse guardare oltre i soliti, soporiferi stilemi passati e ripassati in tv . E quel punto si chiama Boris.
Boris è probabilmente una delle migliori – se non la migliore – serie tv mai prodotte in Italia che, pur partendo in sordina perché trasmessa solamente sui canali satellitari, si è guadagnata un posto fra i prodotti cult del nostro paese, e lo ha fatto dissacrando quell’universo a cui appartiene e da cui, allo stesso tempo, si tira fuori, quello della serialità televisiva italiana. Boris mostra tutti quei meccanismi che si celano dietro il patinato mondo trasmesso in tv, fa vedere gli ingranaggi che muovono la fiction (troppo) italiana. E così, nel backstage di Occhi del cuore – fiction nella ficton e che potrebbe leggersi Centovetrine, Vivere o Un medico in famiglia – un regista disilluso deve fare i conti con un direttore della fotografia cocainomane e con una produzione sempre attenta alle richieste della politica
(oltre che alle spese, gli stagisti fanno un’esperienza d’oro, a che serve pagarli?), aiutato dalla fedele segretaria di edizione, raccomandata, come tutti del resto, e alcolizzata. Scordatevi i dietro le quinte in cui una battuta sbagliata porta risate, pernacchie e pacche sulle spalle degni di Paperissima. Qui si grida, si litiga, ci si sfoga sui più deboli in un gioco al massacro che non risparmia nessuno. Questa serie ha portato un gradino più in alto l’intera produzione italiana, mettendo in mostra i mille difetti del mondo a cui essa stessa appartiene, scrollandosi di dosso tutti i lustrini.
I personaggi tratteggiati dai tre sceneggiatori, Mattia Torre, Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico, sono di una verosimiglianza eccezionale, palesemente ricalcata dalla loro esperienza personale (non a caso sono tre anche gli sceneggiatori di Occhi del cuore), che è stata portata all’estremo fornendo un ritratto realistico di ciò che – probabilmente – accade a riflettori spenti.
Con Boris si ride, e lo si fa di gusto, ma ridendo non ci si rende conto che spesso stiamo prendendo in giro noi stessi, perché dietro alle maschere di Biascica, di Stanis, di Itala, di Reneè e di tutti gli altri personaggi, ci siamo noi stessi, con tutti i nostri vizi (tanti) e virtù (pochissime). Questo prodotto è uno dei più riusciti nel panorama italiano per tutti questi motivi, per le sue implicazioni che vanno oltre il semplice intrattenimento, per l’autoironia (uno dei protagonisti, Stanis La Rochelle, il divo della fiction, è interpretato da uno straordinario Pietro Sermonti, che in passato vestì i panni di Guido, personaggio di Un medico in famiglia), per una qualità oggettiva – anche se questa è una parola che non piace particolarmente a Reneé Ferretti, il regista, interpretato da Francesco Pannofino – e, soprattutto, per aver dimostrato che, in Italia, un’altra fiction è possibile.
Andrea Ardone