Roma. Lo chiamano “potere forte” dei numeri. E’ quello per cui cifre come 930, 3406 e 321 che a prima vista non suggerirebbero nulla, se seguite da parole, con l’aggiunta a 930 di “giornalisti uccisi nel mondo dal 2006 a oggi”, a 3406 di “giornalisti e blogger colpiti nello stesso periodo in Italia” e a 321 ” attacchi rilevati nella penisola nell’anno corrente”, finiscono per scaraventare chiunque contro la più paradossale delle verità: che in paesi dove la stampa è libera, centinaia di giornalisti sono sotto attacco con minacce e querele intimidatorie. I numeri sono potenti nel nostro caso perché parlano di umanità, di individui in carne ed ossa che rischiano la loro pelle e pagano con il sangue l’amore per il loro mestiere.
Ed è grazie a giornate come quella di ieri in cui al Senato si è tenuto il convegno “Giornalisti minacciati, colpevoli impuniti” promosso dall’Osservatorio di Ossigeno per L’informazione che tali storie sono potute riemergere corredate di un ricco repertorio di dati. Per il secondo anno in una delle maggiori sedi istituzionali del paese si è celebrata la Giornata Internazionale per mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti indetta dall’ONU che risponde all’esigenza fisiologica che la nostra società ha, di interrogarsi sul futuro di un sevizio pubblico essenziale per la democrazia ma preda di attacchi ingiustificabili, in violazione delle leggi e dei trattati che sanciscono il diritto di informare e di essere informati.
I dati esposti dal Presidente di Ossigeno Alberto Spampinato parlano chiaro: non solo dal 2006 ad oggi è cresciuto il numero di giornalisti minacciati e uccisi nel mondo ma è stato ravvisato che in 9 casi su 10 i responsabili sono rimasti impuniti. Del totale degli uccisi, il 93% è costituito da cronisti locali contro il 7% degli inviati all’estero (fra questi ci sono i corrispondenti di guerra).
E’ curabile la malattia che affligge il giornalismo? Spampinato ha risposto affermativamente anche se – ha aggiunto- i primi “farmaci” devono essere somministrati dalla politica e dal sistema giuridico. Allo stato dei fatti, le leggi che ci sono non vengono applicate, quelle ingiuste tardano a venir modificate mentre le mancanti che costituirebbero una svolta, non vengono approvate.
Il mancato riconoscimento delle prerogative dei giornalisti (che invece avviene per tutte le altre libere professioni) aziona una reazione a catena che lascia il giornalista in balia di minacce e lunghi processi contro personaggi che puntano alla difesa dei propri interessi economici e illeciti e con l’onore non insignificante, di dover pagar da sé tutte le spese giudiziarie anche in caso di comprovata innocenza. Dopo il danno, la beffa però non è unica: nessun ascolto ha avuto la richiesta di eliminazione della pena detentiva per i colpevoli di diffamazione a mezzo stampa – coloro che per dirla in breve- abbiano compiuto un errore sul lavoro- e che in virtù di ciò possono essere soggetti a un provvedimento di natura penale.
Esiste una soluzione? C’è e non è univoca. Il primo passo da compiere è l’applicazione della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani che ha riconosciuto le prerogative e i diritti dei giornalisti e di chiunque esercita il diritto di informazione, di opinione, di critica e di ricerca scientifica; in secondo luogo serve la creazione di organi extragiudiziari di autoregolazione come i Press Council e l’introduzione di Hotspot, piattaforme pubbliche capaci di raccogliere filtri e diffondere tempestivamente informazioni verificate sulle violazioni che avvengono in Italia.
Se Spampinato ha delineato i margini giuridici di intervento poi ripresi con ricchezza di spunti dal legale di Ossigeno Andrea di Pietro, il segretario Giuseppe Mennella ha sottolineato che la discussione nelle Camere sull’abolizione del carcere è ora in quarta lettura: se venisse approvata nella prossima legislatura, vorrebbe dire che sono serviti venti anni, a partire dal 2001, per vedere riconosciuto un diritto fondamentale.
La location del convegno, in una delle sale più prestigiose del Senato così come i messaggi da parte del Ministro della Giustizia Andrea Orlando, del Presidente della Camera Laura Boldrini, di quello del Consiglio Paolo Gentiloni e il saluto del Presidente del Senato Grasso, manifestano la volontà di parte della classe politica di apertura al dialogo, anche se fatti concreti tardano a venir a galla. Nicita (AGCOM) ha rimarcato un tema di prim’ordine: la solitudine dei giornalisti a livello locale e il crescente squilibrio di forze al diminuire delle risorse economiche. Un giovane – ha affermato – “deve poter contare su un mercato stabile per compiere in maniera efficace il proprio mestiere”.
Lazzaro Pappagallo (Stampa Romana) si è limitato a constatare invece il triste primato detenuto dal Lazio, maglia nera delle minacce con 112 casi, numero di gran lunga superiore ai dati che si registrano in Campania e Sicilia. C’è da fare i conti pure con i nuovi templi dell’insulto e della violenza, primo fra tutti Facebook dove “la sicurezza del mucchio selvaggio” diventa giustificazione per atti illeciti. Ha poi affrontato il tema dei free-lance, spesso ancor meno garantiti ma pur sempre vittime di atti intimidatori a fronte di stipendi medi di 9000- 14000 euro annui: “vocazione al martirio” la definisce Pappagallo, la spinta che porta i giornalisti a non maturare l’abbandono della professione in casi simili.
Mentre per Carotti (Fieg) la vera linfa vitale può giungere solo dal dibattito con i giovani, per Albanese (delegato alla legalità della FNSI) preoccupato per un mondo che oggi come non mai è sotto attacco, la chiave di volta consiste nel recuperare la credibilità della categoria. Credibilità per il mondo dell’informazione vuol dire attenzione alla politica, all’economia corrotta e capacità di illuminare attività mafiose che rappresentano- ha sottolineato- l’11% del PIL dello Stato italiano. Solo in questi termini può davvero essere ridotto il rischio di un’informazione asservita e di un’involuzione democratica. «E’ importante far squadra, minacce e precarietà sono una miscela esplosiva» dice infine Paolo Borrometi, giornalista free-lance in rappresentanza di Articolo 21. Dopo il racconto della sua personale vicenda la penna di “la spia”, oggi sotto scorta, giustifica il suo continuo impegno e quello di altri colleghi, malgrado condizioni oggettivamente scoraggianti, con la “voglia di continuare a credere nella professione più bella al mondo.”
Certo, per la vastità dei temi trattati servirebbe ben più che un articolo ma per descrivere l’atmosfera che si respirava in Sala Koch ieri basta una parola sola: “movimento”. Parlare di libertà di informazione vuol dire smuovere la società in avanti, ridestarla dal torpore dell’assuefazione alla violenza e alle ingiustizie, vuol dire credere in un futuro diverso. Per questo i giornalisti, libertà van cercando, che è sì cara come sa chi, come loro, la censura rifiuta!
Valentina Pigliautile