Quello relativo ad un non meglio specificato “futuro” è stato il fulcro portante di una narrativa di genere che, a periodi alterni, ha avuto moltissima fortuna, spingendo su paure e desideri di lettori, spettatori, giocatori di prodotti videoludici e via dicendo. Abbiamo visto macchine volanti, immaginato mondi lontani in contatto con noi, ci siamo teletrasportati insieme ai personaggi di film e libri pensando che, un giorno, tutto questo sarebbe stato possibile.
Oggi però, il fulcro della narrativa fantascientifica, in alcuni casi, ha subito un netto cambiamento di rotta. Questo perché, come recitano alcuni motti declinati in mille modi diversi “il futuro è qui. Il futuro è oggi. Il futuro siamo noi”. Ce ne siamo resi conto quando abbiamo superato l’anno in cui Marty McFly sarebbe dovuto giungere dagli anni ‘80. Quando, pur avendo superato di molto il 1984, ancora non siamo arrivati ad un controllo capillare sulle persone da parte di un partito unico mondiale che tutto sa e tutto controlla (almeno non nelle dimensioni immaginate da George Orwell nel 1948) e, sinceramente, ci sembra difficile che entro il 2019 saremmo in grado, noi come umanità, di aver colonizzato mondi lontani dove creare forza lavoro tramite intelligenze artificiali.
Tornando al nostro punto di partenza, dobbiamo renderci conto che, pur non potendo muoverci da un capo all’altro del mondo in meno di 2,5 secondi, la tecnologia è ormai diventata parte integrante delle nostre esistenze. Ed è qui che si inserisce la narrativa di genere basata sull’utopia futuristica perché, ad oggi, la suggestione più incisiva sull’argomento è proprio quella relativa alla deriva tecnologica di cui, faticosamente, ci stiamo rendendo conto. Si porta all’estremo ciò che siamo oggi, ciò che la nostra società ha permesso, si fa l’iperbole di alcuni comportamenti che solo 15 ma anche 10 anni fa sarebbero stati inconcepibili. E qui dobbiamo correggere quanto scritto in precedenza: in questo senso, George Orwell è stato un precursore. Il suo obiettivo non era quello di prevedere quello che la società in cui era immerso sarebbe potuta diventare ma, trasponendola nella sua peggior derivazione possibile, voleva metter in guardia dai pericoli reali di ciò in cui tutti vivevano la propria quotidianità.
Black mirror fa la stessa cosa. Così come la letteratura di Orwell, questo prodotto mediale ci mette di fronte ad uno specchio che, per quanto faticosamente, vuole mostrarci i vizi che cerchiamo di nascondere, porta alle massime conseguenze un certo tipo di stile di vita che è diventato quello di un’intera società. La nostra. E lo fa in maniera egregia.
La struttura di Black Mirror è verticale, ogni puntata di questa serie è autoconclusiva e, in questo modo, riesce ad analizzare moltissime angolazioni, anche le più nascoste, della suddetta deriva in cui ci troviamo. Uno dei pregi di questo prodotto è proprio il punto di vista privilegiato che viene offerto allo spettatore, il quale osserva i propri vizi, i tic, i comportamenti, le proprie devianze, da un punto di vista esterno, rendendo più semplice una presa di coscienza, la quale è la naturale conseguenza di un’iniziale fase di diniego.
In questa serie tutte le conseguenze dell’alta esposizione alla tecnologia ci vengono estremizzate davanti agli occhi,
con dei risultati sbalorditivi sotto ogni punto di vista. La dipendenza da social, il Grande Fratello da cui siamo tutti controllati (Orwell, ancora), il modo in cui le nostre menti vengono manipolate, in maniera più o meno incisiva, da fattori esterni, le possibilità offerte dalle nuove tecnologie che però, spesso, vengono distorte con risultati inquietanti, il comportamento che noi tutti assumiamo sul web trasposto nella vita reale… Questi sono solamente alcuni dei temi che vengono toccati da Black Mirror ed il risultato è oltremodo inquietante.
Questa è una serie che fa centro perché parla di noi, ci dissimula una visione di quello che potrebbe essere il nostro futuro instillando, nella nostra mente, la consapevolezza che noi in quel futuro già ci stiamo vivendo. E non è certo una visione confortante.
Black mirror è probabilmente l’erede spirituale più riuscito di tutta quella narrativa che, già dal ‘900, analizza la società in cui ci si trova a vivere, metaforizzandola in qualcosa che non siamo capaci di riconoscere ad una prima occhiata. Da sola è riuscita a ridefinire il genere a cui appartiene donandogli nuovi contorni e creando qualcosa di completamente nuovo.
Come abbiamo detto in precedenza “Il futuro è qui”. E quella che ci troviamo davanti non è certo una visione confortante.