Per chi non lo conoscesse, Robert Kirkman è colui che ha rinnovato il concetto di zombie, dando nuova linfa vitale ad uno stereotipo di un certo genere narrativo che, come è normale che accada, dopo aver toccato un picco di popolarità stava subendo un periodo di appannamento. Un lunghissimo periodo. Dopo essere stato introdotto nell’industria dell’intrattenimento di massa da George Romero, che ne ha definito caratteristiche e peculiarità, con il suo La notte
dei morti viventi, la figura dello zombie ha subito varie riletture ed adattamenti, ma sempre tenendo ben presente ciò che aveva fatto il compianto regista di New York. Sono poi arrivati nuovi prodotti, che si distaccavano completamente dai precetti ideati dal “maestro dell’horror”, prendendo come base solamente le fondamenta di quanto era stato fatto in precedenza, ma costruendoci sopra una struttura inedita. Io sono leggenda, 28 giorni dopo, World War Z, pur rispettando e facendo continuo riferimento alla narrativa precedente, ridisegnano un’idea di morto vivente completamente nuova. Con Robert Kirkman si chiude il cerchio, e si torna alla visione originali dei mostri tanto cari a Romero, sia a livello estetico che per ciò che riguarda i risvolti sociali. The walking dead, che già dal titolo si richiama al film capostipite del 1968, è prima di tutto una serie a fumetti, la quale, dato l’enorme successo, si è presto trasformata in un prodotto televisivo. Kirkman è sceneggiatore del fumetto e produttore esecutivo della sere tv e, spiace dirlo, questa differenza di ruoli si vede tutta. Ma andiamo con ordine.
The walking dead fa il suo esordio in America nel 2003 con la casa editrice Image, approdando qui da noi due anni più tardi, pubblicato da Saldapress, e da subito riscuote un enorme successo fra gli appassionati di tutto il mondo. La trama di base è quella che abbiamo già visto e rivisto: sulla terra è arrivata l’Apocalisse sotto forma di un virus che riporta in vita i morti, trasformandoli in bestie senz’anima affamate di sangue. Il protagonista è uno sceriffo che, risvegliatosi dal coma in cui era entrato dopo essere stato ferito gravemente in uno scontro a fuoco (avete detto 28 giorni dopo?), si trova in un mondo devastato dal virus in cui, inizialmente, non sembra esserci traccia di superstiti. Dopo varie vicissitudini, riuscirà ad unirsi ad un gruppo di sopravvissuti e da lì inizierà, insieme a loro, un lungo peregrinare in cui l’unico obiettivo è la sopravvivenza. Fine. Se la sinossi è questa, lineare e con molti punti in comune con altre produzioni, come è stato possibile che la serie si sviluppasse per più di 14 anni, andando avanti ancora oggi? La vera forza di The walking dead, sta tutta nel punto di vista adottato, in uno studio sulle dinamiche sociali che, fra una pagina e l’altra, viene condotto dallo sceneggiatore. Presentata come una serie sui morti viventi, infatti, questo prodotto si è presto trasformato, ha mutato la sua natura, o meglio, ha solamente svelato cosa nascondeva sotto la maschera. Andando avanti con la lettura, ci si rende conto che quelli che sono i reali nemici dei protagonisti, non sono i risorti la cui umanità si è dissolta insieme alle loro carni, ma bensì i vivi che quella stessa umanità, almeno all’apparenza, ancora la conservano. Cosa fare allora quando il nemico che ti si presenta davanti non è quello che ti aspettavi? Come può cambiare l’etica di un essere razionale di fronte ad un evento del genere? Come mutano la società, i rapporti umani quando il detto mors tua vita mea assume una valenza tutt’altro che metaforica? Quando ogni singola decisione presa si rivela essere una scelta fra la vita e la morte? È su questi ed altri punti della stessa caratura che veleggia la serie ideata da Kirkman, nella quale, non a caso, una delle frasi di maggior impatto è quel I morti siamo noi, pronunciata dallo sceriffo.
Questa prospettiva ha fatto in modo che, con l’evolversi della storia, i morti viventi diventassero solamente un elemento di contorno, contro cui ogni tanto i nostri protagonisti avevano a che fare di tanto in tanto e di cui si liberavano senza particolari difficoltà, incentrando la maggior parte dello sviluppo narrativo sui rapporti dei personaggi, sui loro pensieri, sull’adattamento al nuovo mondo in cui si erano ritrovati a vivere e sui rapporti fra i
diversi gruppi di sopravvissuti, ognuno con le proprie regole, riti, priorità, modalità di sopravvivenza. Kirkman ha rotto le regole della convenzione che presiedevano da sempre racconti di questo tipo per raccontare qualcosa d’altro, senza che il lettore, inizialmente, se ne rendesse conto. The walking dead è un prodotto che non parla solamente a noi, ma parla di noi.
La serie televisiva, però, pur partendo dagli stessi presupposti, purtroppo si perde per strada. Le differenze dal fumetto, inizialmente, sembrava che potessero dare una marcia in più a questa produzione, traslando su televisione ciò che era su carta, aggiungendo di conseguenza un pathos del tutto nuovo, proprio del mezzo televisivo. L’aggiunta di personaggi nuovi, con un carisma ed una presa sul pubblico inedita rispetto al medium precedente, ed il focalizzarsi su questioni che nel fumetto erano state risolte velocemente, sembrava potesse fare il resto. Ad oggi, però, giunti all’ottava stagione, ci si è resi conto che la trama non ha la stessa potenza emozionale ed evolutiva della sua controparte cartacea, lo svolgersi degli eventi è tremendamente più lento o, per dirla meglio, la diluizione narrativa che può funzionare per un fumetto, trasposta in termini televisivi, semplicemente non funziona. The walking dead si regge quasi unicamente sulla forza dei personaggi e dei dialoghi, e quando viene a mancare questa tensione ecco che il castello di carte non può fare altro che crollare. Ogni stagione subisce un’emorragia di spettatori sempre maggiore rispetto alle precedenti, nonostante i tentativi per rendere il tutto più interessante siano stati fatti. Il problema vero è che la potenza emotiva (ed anche recitativa) di personaggi ed attori non può sopperire alle mancanze di trama che questa serie sta svelando sempre di più. E l’annuncio fatto dalla produzione di una durata potenzialmente illimitata di questo prodotto non ha fatto che gettare nello scoramento gli stoici che ancora cercano di dargli una possibilità. Solo il tempo potrà dirci quello che succederà, ma ad oggi quel che è certo è che il fumetto di The walking dead batte nettamente la sua controparte televisiva.
Andrea Ardone