Tutti gli uomini del presidente è il più importante film che ha trasposto su pellicola i meccanismi del giornalismo d’inchiesta. Robert Redford e Dustin Hoffman vestono i panni di Bob Woodward e Carl Bernstein, i due cronisti del Washington Post che, dal 1972, indagarono sulla politica sporca messa in atto da alcuni apparati governativi americani, facendo scoppiare quello che i media definirono “Scandalo Watergate”, causando poi le dimissioni per impeachment del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon.
Il caso Spotlight percorre la scia tracciata dal lungometraggio del 1976, con la riproposizione sul grande schermo di un’altra indagine giornalistica che, partendo dagli Stati Uniti, ebbe una risonanza mondiale. Il film diretto da Tom McCarthy, vincitore degli Oscar per la migliore sceneggiatura originale e per il miglior film, porta sul grande schermo il lavoro di una squadra di reporter del Boston Globe, basato sulla scoperta di centinaia di abusi compiuti da appartenenti del clero della città su ragazzi e ragazze.
Il film è girato con una tecnica a tratti documentaristica, e ripercorre passo dopo passo il lavoro svolto dai cronisti del Globe, dalla ricerca di fonti attendibili all’inevitabile confronto con un muro di omertà. In questo ci si ricollega a Tutti gli uomini del presidente, laddove in entrambi i film la difficoltà più grande per i giornalisti nel reperire le giuste informazioni è da ricercarsi nel lavoro ostruzionistico svolto dalle istituzioni stesse, e solo marginalmente nella paura di farsi avanti manifestata dai testimoni. I due lungometraggi si incontrano ed intrecciano più volte fra loro, al netto della loro distanza temporale. Le porte sbattute in faccia ai giornalisti fanno male a loro tanto quanto allo spettatore, proiettato con forza alla ricerca di quella verità che sta alla base delle indagini. La più grande differenza a livello emotivo fra i due film sta proprio nella natura di quella verità che i cronisti si affannano a voler rivelare. Mentre nel film con Hoffman e Redford i colpevoli così come le vittime fanno parte dello stesso apparato istituzionale, ne Il caso Spotlight sono posti su due livelli completamente diversi, dato che gli oppressi sono bambini, molestati fisicamente e psicologicamente da quei carnefici che godono della fiducia incondizionata della società, e di una protezione istituzionale. Lo spettatore si trova così a volere con tutte le sue forze che i crimini commessi vengano rivelati e puniti e riversa tutto il suo rancore sia sui colpevoli che su quelle figure che, pur sapendo i fatti, si rifiutano di parlare per paura di ritorsioni.
Una delle scene che più colpisce nel segno, avviene sulla soglia di casa di uno dei preti accusati di abusi sessuali, il quale, messo di fronte alle proprie responsabilità, le ammette candidamente, affermando come tutto ciò gli appaia perfettamente normale e mostrando di non avere il benchè minimo senso di colpa. E’ allora che il sistema di abusi, il sistema morale dietro quello che è successo prende forma, sullo schermo così come sui taccuini dei giornalisti che su quello stesso schermo svolgono il loro lavoro, irrompendo nelle coscienze degli spettatori con una forza incredibile. La stessa forza la si trova in via potenziale nel fatto che, per tutta la durata del film, non vengono mai mostrati i bambini vittime di abusi, ma chi guarda deve fare i conti con le persone adulte che quei bambini sono diventati, con tutte le conseguenze che hanno dovuto affrontare per riprendersi dal trauma, con il fatto che questi adulti sono chiamati “I sopravvissuti” perchè molti altri, non reggendo psicologicamente al loro passato, si sono suicidati. Gli unici bambini, ancora tali, vittime di stupro, sono mostrati attraverso un vetro, paragonabile al muro di silenzio e protezione che regnava all’interno dell’Arcidiocesi di Boston, che ha permesso ai carnefici di continuare indisturbati a compiere i loro orrendi crimini dagli anni ’70 fino al 2001, anno di inizio dell’inchiesta del Globe.
Il caso Spotlight è un film sul giornalismo, su quel giornalismo capace di rivelare verità che
sono scomode non solo per i temi che vanno ad affrontare, ma anche per la diffidenza ed il pregiudizio con cui si devono confrontare e scontrare. E’ un film sul buon giornalismo, ma anche su quello cinico che, a volte, indaga ed affronta tematiche difficili solo per arrivare allo scoop prima dei concorrenti. E’ un film sulle persone che di quel mondo ne fanno parte, costrette a confrontarsi con la loro etica, con le loro ideologie, con la loro visione del mondo e della società in cui vivono e svolgono il loro lavoro.
Il caso Spotlight è un film, ma va oltre lo schermo, oltre la sala di proiezione. Le didascalie a fine pellicola ce lo ricordano, ci dicono che colui che ha coperto gli abusi per oltre trent’anni non ha subito un processo, non è stato sollevato dal suo ruolo. E’ stato trasferito a Roma, nella basilica di Santa Maria Maggiore, una delle più importanti della cristianità a livello mondiale. Subito dopo questa notizia scorrono sullo schermo le decine e decine di paesi nel mondo in cui sono stati dimostrati abusi su minori da personalità appartenenti al clero. Poi solo uno sfondo nero. Titoli di coda.
Andrea Ardone