I dispositivi touchscreen hanno sostituito i giocattoli tradizionali, ma i bambini “tecnologici” che li utilizzano mostrano ritardi nello sviluppo. Gli esperti ne sconsigliano l’uso.
Lo studio presentato durante il congresso delle Pediatric Academic Societies and Asian Society for Pediatric Research in corso a Vancouver si basa su 63 coppie, i cui figli hanno avuto il primo contatto con un dispositivo a schermo tattile in media a 11 mesi di età e per 17,5 minuti al giorno, ma con punte di 4 ore. Le attività principali per i bambini sono risultate guardare show educativi (30%), usare app educazionali (26), premere a caso lo schermo (28) e fare giochi non educativi (14).
Anche se il 60% dei genitori si è detto convinto che l’uso dei dispositivi produceva un «beneficio nell’educazione» nei piccoli, test cognitivi hanno dimostrato che non c’era nessuna differenza tra i bambini “tecnologici” e quelli non. Anzi, nei piccoli che giocavano con app non educative si è notato un ritardo nello sviluppo del linguaggio. «Abbiamo osservato nella nostra clinica che il giocattolo numero uno che i genitori danno ai figli sono gli smartphone – afferma Ruth Milanaik, l’autore principale dello studio – che ormai ha sostituito i libri e i giocattoli tradizionali. La tecnologia però non può rimpiazzare il contatto diretto con i figli, che è la miglior fonte di apprendimento».
La preoccupazione degli esperti per la sempre maggiore esposizione dei bambini ai dispositivi elettronici è crescente, e ha portato all’emanazione di linee guida sia da parte dell’associazione dei pediatri statunitensi che dell’omologa britannica in cui si consiglia alle famiglie di non far usare i dispositivi fino ai due anni, e poi di concederli al massimo per un’ora al giorno. Dalla Gran Bretagna è arrivato un altro allarme durante il congresso dell’associazione insegnanti, secondo cui i bimbi alla materna sanno far scorrere uno schermo ma non hanno le abilità cognitive per usare le costruzioni, oltre ad avere difficoltà nelle relazioni con i compagni e gli insegnanti.
di Fabio Galli