Aveva già concesso qualche giorno fa un’intervista in esclusiva a PaeseRoma.it, sviscerando i retroscena che lo hanno portato ad essere l’esperto che tutti conosciamo.
Ma ecco che, improvvisamente, Ezio Guaitamacchi riprende la parola, puntualizzando i suoi pensieri, i suoi gusti, le sue idee ed opinioni riguardo al panorama musicale.
– “Il rock è una moda passeggera, sarà morto entro giugno” recitava un articolo di Variety del 1955. Secondo te, oggi, il rock’n’roll è morto davvero? E perchè ha rappresentato cosi tanto nella storia della musica (e non solo)?
Inanninzutto credo che il rock’n’roll sia una forma d’arte suprema, ma popolare, esplosa in un periodo straordinario che ha prodotto artisti che rimarranno nei secoli dei secoli. È difficile dire se il rock sia morto, sicuramente è morta quel’epoca d’oro: il passato non si può ripetere. Ci sono però ancora tante cose buone, quindi il rock continuerà a vivere…
– Come definiresti la scena musicale degli ultimi vent’anni? Credi che potrà esserci di nuovo una stagione musicale come è stata quella tra gli anni ’50 e ’70, così ricca di emozioni, sensazioni, sperimentazioni, tanto da poter essere ricordata e celebrata ancora tra 50 anni?
Non nel rock, ma magari uscirà qualcos’altro… La fine degli anno 90 è stata molto fruttifera, gli anni 2000 un po’ meno. Ci sono molteplici proposte, ma manca il nuovo, non tanto come originalità dei personaggi, ma proprio come concezione, qualcosa che ricopra il ruolo che la musica rock ha avuto nella società di allora. L’unico genere che ha suscitato un po’ di attenzzione a livello sociale è stato il rap…
– Cosa pensi quando senti parlare dei “nuovi Beatles” o dei “nuovi Rolling Stones” o del “nuovo Bob Dylan”? Tu che questi artisti li hai studiati, vissuti, sviscerati, trovi che possa davvero esserci qualcuno in grado di ricalcare le loro orme, rappresentare quello che questi artisti hanno rappresentato per la loro generazione?
No, non può esserci un nuovo Bob Dylan, come nello sport non potrà più esserci un nuovo Maradona. Io penso che la musica ci sarà sempre, cosa sarà non lo so, ma ci sarà sempre una musica in grado di dialogare con la società e la cultura che la produce, cultura ormai globale. C’è ancora chi rimane legato alle tradizioni locali, invece secondo me la musica dovrebbe avere un ruolo di “memoria”, di storia, non più di “vita”: allora si che avrebbe una funzione eterna. C’è invece chi vuole tornare ad essere qualcosa che non c’è più.
– Personalmente che genere di musica ascolta Ezio Guaitamacchi? C’è un artista o un genere in particolare che ti appassiona, che ascolti al di là del lavoro?
Il cantautorato femminile in generale mi è sempre piaciuto molto, le musiche del mondo mi piacciono, sopratutto quelle americane. Tutto ciò che è musica counrty e folk, blues e jazz, soul, insomma ho un sacco di passioni private
– Se potessi scegliere di vivere in un altro momento storico e in un altro luogo quale sceglieresti e perchè?
Sicuramente avrei voluto vivere in California, ma non necessariamente la California degli anni ’60. Io ho la fortuna di poterci andare spesso e mi piace, mi piace il clima, il fatto di vivere all’aria aperta… Certo, la cultura americana è molto controversa, però io ci sto bene. Non sceglierei necessariamente un periodo particolare anche perché, quando ci sei dentro, difficilmente hai la percezione di quello che stai vivendo.
– Chi è l’artista o il personaggio che avresti voluto essere, nel quale ti identifichi o ti sei identificato?
Sono un grande ammiratore di Renzo Arbore, l’ho conosciuto bene, ho lavorato con lui, gli sono molto amico e lo stimo moltissimo. Stima e amicizia che provo anche nei confronti di Gianni Minà, giornalista che mi è sempre piaciuto. Mi piaceva tanto il suo coraggio, la sua indipendenza, il suo giornalismo anche quando era retorico; era uno che non si è mai tirato indietro.
– Qual’è il concerto che ha rappresentato di più per te, che ti ha lasciato qualcosa di speciale, che ricordi con particolare entusiasmo?
Il concerto che mi ha cambiato la vita è stato quello dei Jethro Tull al teatro Smeraldo di Milano: avevo 14 anni ed è stato il primo concerto che ho visto. Poi ce ne sono tanti altri, bellissimi, ma quello rimane nella memoria.
– Qual’è stato l’apprezzamento più bello che hai ricevuto? E la critica peggiore?
Le critiche mi feriscono, sono molto debole da questo punto di vista. Ne ho ricevute molte positive su Psycho Killer e solo una negativa – secondo me anche ingiusta – e ci sono rimasto male. Quello che mi da fastidio è che c’è davvero gente prevenuta, forse perchè dirigo un giornale concorrente o forse perchè faccio delle cose che vorrebbero fare loro… Però mi piace tanto quando qualcuno mi dice che grazie a me ha scoperto delle cose nuove.
– Da esperto, cosa pensi della musica italiana passata e presente? Che sorti avrà la musica italiana in futuro, soprattutto se paragonata con quella britannica e americana?
Io penso che il rock in Italia, a parte la parentesi del prog, non abbia mai avuto chance, perché non appartiene alla nostra cultura. Ha avuto un ruolo rilevante la canzone d’autore per l’importanza dei testi e sicuramente i gruppi rock degli anni ’90 per la loro funzione divulgativa.
– Chi è secondo te l’artista che meglio ha saputo rappresentare il suo tempo e il suo genere, l’icona per eccellenza?
Ce ne sono tanti per tante generazioni… Sid Vicious per il punk, i Grateful Dead per la cultura psichedelica, Chuck Berry, Elvis e Jerry Lee Lewis per il rock’n’roll… Se vai sull’iconico tout court secondo me diventa un po’ limitante; c’è chi vede Jim Morrison come la rockstar per eccellenza senza tener conto dei valori extra musicali, delle considerazioni più profonde, fermandosi all’estetica e al rock’n’roll lifestyle al quale credo, ma fino a un certo punto.
– Provi un po’ di nostalgia per un periodo nel quale la musica era appartenenza, rappresentava davvero un momento di aggregazione? Cosa pensi sia diventata in una società nella quale si cammina con gli auricolari e l’I-pod in tasca? Che scopo ha la musica oggi?
Negli anni d’oro non è che ci fosse tutta questa percezione… Forse il periodo migliore è stato quello degli anni ’90 perché la musica aveva ancora un ruolo, era molto più evoluta e c’era un background al quale rivolgersi.
– Per concludere: master in giornalismo e critica musicale, un cerchio quasi simbolico che si chiude, un posto dove la conoscenza acquisita si tramanda e si approfondisce, idealmente l’alfa e l’omega del tuo percorso. Come nasce quest’idea, questo desiderio di formare nuove leve del giornalismo?
Io avevo in mente un progetto forse un po’ troppo complicato e ambizioso: volevo fondare l’università del rock. Ne avevo parlato con Franco Mussida, al quale avevo chiesto di scrivere la prefazione del libro Guitar Heroes, e lui mi propose di farlo al CPM – Centro Professione Musica – che era appena nato, dandogli però una prospettiva più professionale: cosi è nato il corso di giornalismo e critica musicale.
Non so se negli anni ho imparato a fare il docente, ma sono molto orgoglioso di questo progetto, anche se è molto impegnativo, soprattutto per la responsabilità che sento nei confronti dei miei studenti, che cerco di aiutare anche dopo la fine del corso. Magari non porterò mai a temine il progetto iniziale, ma mi piacerebbe che questo tipo di materia venisse insegnata all’università; ecco perché mi sto dedicando a “La Storia Del Rock” per Hoepli, che spero possa essere un lasciapassare più consistente rispetto agli altri miei libri.
Chiudiamo con l’augurio più sincero e la speranza che Ezio Guaitamacchi riesca a formare una nuova generazione di giornalisti musicali, conoscitori e amanti della musica, almeno al suo pari.
ALEX PIERRO