Settantotto, come i giorni trascorsi senza un governo. Tre, come i giri di consultazioni avviati e risucchiati nel vortice dei live streaming di ciascun leader. E una, solo una ormai, la possibilità che resta ai due vincitori dimezzati, Salvini e Di Maio di andare a Montecitorio: il placet di Matterella al contratto di governo chiuso ieri e l’approvazione dei nomi della futura squadra di governo giallo-verde. La resa dei conti è vicina: previsto per oggi pomeriggio l’incontro al Quirinale tra il segretario federale della Lega e il capo politico del M5S con il Presidente della Repubblica.
“Ci sono mondi dietro le parole, ci sono cose. Se ci cambiano le parole, ci cambiano il mondo. Ci cambiano la vita”- commentava Beppe Grillo sotto una sua foto postata su Instagram il 29 gennaio. E oggi possiamo dire che non aveva tutti i torti. In questa fase di “spaesamento” dove nulla è davvero come appare, a dettare l’agenda politica non sono i politici in grado di fornire soluzioni, piuttosto coloro che riescono meglio di altri, a nominare la realtà in modo alternativo. In modo seducentemente nuovo. E di certo la dote onomaturgica – così viene definita l’arte di coniare parole nuove – è un ulteriore punto che accomuna grillini e leghisti.
Basti pensare al termine “governo del cambiamento”, imposto fin da subito dal leader politico del M5S come unica alternativa ai “governi di inciucio” (in gergo stellato, tutti gli altri governi in cui il M5S era all’opposizione). Pazienza dunque se, secondo la Costituzione, spetti al Presidente della Repubblica la nomina del Presidente del Consiglio (art. 92.2 Cost) che accetta con riserva fino al momento della presentazione della lista dei ministri; e poco importa che nella fase successiva della formazione di governo, spetti sempre al Presidente del Consiglio, entro 10 giorni, procedere alla presentazione del programma alle Camere per ottenerne la mozione di fiducia.
Tutto questo, per il governo del cambiamento, frutto del matrimonio tra Lega e Cinque stelle, non vale: “stanno cambiando i riti della politica: si discute prima delle questioni che riguardano gli italiani e poi parallelamente degli esecutori di questi temi”, ha detto Di Maio lunedì scorso, all’uscita dell’incontro con Mattarella, al quale ha richiesto più tempo per la definizione del contratto di governo. Già da giorni impazza il totonomi sui ministeri: secondo indiscrezioni a Salvini spetterebbe quello degli Interni e a Di Maio quello del Lavoro; i due avrebbero concordato persino un nome comune da avanzare a Mattarella come Presidente del Consiglio. Si tratta del Professore di diritto privato all’Università di Firenze e alla Luiss Guido Carli, Giuseppe Conte, che nella squadra del fantagoverno Cinquestelle presentata prima delle politiche, sarebbe stato Ministro della Pubblica Amministrazione.
Anche qui Di Maio preferisce al – per lui anacronistico- termine “Presidente del Consiglio”, l’appellativo di “esecutore del contratto” o “amico del popolo”. Forse perché, messa in questi termini, la scelta di un premier tecnico, sarà più facile da digerire per entrambe le basi dei due partiti e salterà meno agli occhi di chi ha buona memoria dei “no a governi tecnici” di Salvini fino a qualche giorno fa. Ma nella rivoluzione delle parole, il protagonista indiscusso resta il contratto di governo, “il fu contratto alla tedesca”. In campagna, i pentastellati hanno abbandonato i panni degli anti-politici per presentarsi al grande elettorato come una veste affidabile e moderata (i nuovi democristiani 2.0?), eredi per scelta, dei modelli politici sperimentati già dalla cancelliera di ferro. E l’aggettivo “tedesco” è servito a ricordarlo, e a svilire le accuse giornaliere di inesperienza e incapacità politica da parte dei competitors.
Una volta venuta meno la fase dei due forni grazie all’astensione benevola (e anche qui le parole fanno pensare) di Berlusconi si parla di “contratto di governo”, inviso già dalla bozza, proprio agli amici della Merkel in Europa. Non che ci sia da stupirsi, considerato che tra i vari punti del documento pubblicato in esclusiva dall’Haffinghton Post, figurava la richiesta di ridefinizione delle politiche monetarie e di cancellazione da parte dell’UE di 215 miliardi di debito italiano.
Ed è proprio nel contratto che l’estro onomaturgico Lega-M5S raggiunge l’apice artistico. Nella sezione riguardante il governo e i gruppi parlamentari si legge: “Qualora nel corso dell’azione di governo emergano divergenze per quanto concerne l’interpretazione e l’applicazione del presente accordo, le parti si impegnano a discuterne con massima sollecitudine e nel rispetto dei principi di buona fede e leale cooperazione. Nel caso in cui le divergenze persistano, verrà convocato il Comitato di conciliazione”.
“Il comitato di conciliazione” – si conclude – “Servirà per giungere ad un dialogo in caso di conflitti al fine di risolvere i problemi e le divergenze rilevanti”. In summa, svolgerà il ruolo che per legge rientra tra i compiti espletati dal Parlamento. Si tratta senza dubbio di una proposta innovativa quanto opaca che resta, almeno per ora, incostituzionale al 100%. Sulla stessa scia si collocano anche la proposta di vincolo di mandato e “l’affermazione del principio della prevalenza della nostra Costituzione sul diritto comunitario”.
E a chi accusava i due vincitori di aver ideato un programma di governo da 125 miliardi a fronte dei soli 550 milioni di copertura disponibili, Salvini e Di Maio hanno risposto facendo ricorso alla “suprema volontà popolare”. Ieri i seguaci di Salvini, sull’onda dell’Hashtag #andiamoagovernare, hanno tenuto gazebo nelle principali città per permettere a tutti i cittadini di esprimere il loro parere favorevole o meno riguardo al contratto. I grillini invece, dalla parte della e-democracy, hanno pensato di tenere queste votazioni online e riservarle agli iscritti alla piattaforma Rousseau. #IosononelContratto recita l’hashtag: peccato che non tutti gli italiani siano sulla piattaforma Rousseau. Il risultato? Da plebiscito: 94% dei sì.
In questo mare di parole, spetterà al Capo dello Stato, mettere il punto finale. L’ultima parola, almeno per oggi, sarà la sua.
Valentina Pigliautile