Accendere la televisione alle tre del pomeriggio significa assistere a delle esibizioni da circo. L’avvenenza di immagini e di costumi volgari si giustifica con un clima di tranquillità: tutto lo sfondo della scena opera a rendere legittimo ciò che avviene; i dialoghi, le battute, i gesti, le scenografie e gli effetti, tutto nel quadro è in armonia, ed è l’armonia che dà credibilità al tutto, in particolar modo nella televisione di massa.
Quel contesto così basso, così privo di qualsiasi tipo di spessore presenta una logica, ed è proprio nel momento in cui lo spettatore si identifica con quella logica che avviene il plagio, quella che Marcuse chiamava “chiusura dell’universo di discorso”. Forse la citazione può sembrare un po’ forzata in tale contesto, ma bisogna riconoscere che le osservazioni di carattere sociologico possono fornire delle intuizioni, e illuminare, laddove il contesto si presenta apparentemente conforme alle esigenze della gente. Certi fenomeni si manifestano lentamente, si innestano tentativi, si lancia sul mercato un prodotto, che se si rivelerà produttivo, sarà da conservare fin quando non risulterà saturo di novità, fin quando non è più trattabile.
Poco rilevanti sono i mezzi con cui far risultare questo prodotto televisivo conforme alle esigenze della gente. Rendere accettabile moralmente e culturalmente ciò che non può esserlo è strettamente necessario, se non accadesse non potrebbe fornire profitto economico in quanto privato della novità, del paradossale, dell’irreale in un contesto di forzata realtà, appunto come in un circo. Nonostante il prodotto televisivo, per essere efficace negli ascolti, ha bisogno del paradossale, del grottesco, necessita di un sottile processo di normalizzazione che legittimi la scena. Non è importante che esso rifletta il lavoro richiesto per realizzarlo, che sia vero, autentico ma soltanto che appaia come lo si attende e lo si vuole, che faccia spettacolo perché così richiede la nuova situazione economica.
Riflettendo su ciò che ogni giorno si può riscontrare nella televisione italiana è facile il richiamo ad un vecchio libro, “La società dello spettacolo” di Guy Debord del 1967, classico della contestazione: Debord aveva previsto qual che sarebbe accaduto ai nostri giorni, era stato in grado di identificare un futuro umano e sociale con lo spettacolo. La matrice della riduzione della realtà a spettacolo, della riduzione dell’uomo e del mondo ad oggetto, la loro materializzazione sta in quel grande transito che in età moderna ha interessato la storia dell’umanità, ossia il passaggio dall’essere all’apparire, ad un non essere che si è stemperato in ogni ambito: vita, costume, politica, cultura, arte, scienza; da qui i politici corrotti, gli scrittori che sono anche presentatori televisivi ed i fornai che anch’ essi si dicono esperti, tutto ciò costituisce lo spettacolare ingrato: non c’è più niente di autentico poiché tutto si innesca nella dialettica dell’apparenza, tutto è prodotto e concepito in funzione di immagine, di parvenza, e il fruitore a sua volta obbedisce ad altri bisogni o richieste di apparenza.
Silvia Buffo