A soli 27 anni, dopo una breve, ma intensa vita segnata da eccessi di ogni tipo, tra droghe e alcool, si spegneva una delle più grandi – se non la più grande in assoluto – cantante Blues che la storia abbia mai conosciuto.
Il mondo non aveva ancora del tutto assorbito lo shock per la scomparsa del grande chitarrista Jimi Hendrix che, dopo poco più di due settimane, il 4 ottobre arrivò la notizia che al Landmark Motor Hotel di Hollywood, California, era stato trovato il corpo senza vita di Janis Joplin, la cantante più ‘Blues‘ della storia del Rock.
Il referto del coroner della contea di Los Angeles, il dottor Noguchi, non lasciò spazio a dubbi o interpretazioni: la regina del Blues era morta stroncata da un’overdose di eroina.
Finiva così, a soli 27 anni, l’esistenza inquieta di Janis Joplin, contribuendo ad alimentare quella che sarebbe diventata la maledizione del club J27, tutti artisti accomunati dalla presenza nel loro nome della lettera J e dall’età della scomparsa, 27 anni appunto (Brian Jones – Hartfield, 3 luglio 1969, Jimi Hendrix – Notting Hill, Londra, 18 settembre 1970, Jim Morrison – Parigi, Francia, 3 luglio 1971, e la stessa Joplin – Hollywood, Los Angeles, California, Stati uniti, 4 ottobre 1970).
Nata a Porth Arthur (Texas) il 19 gennaio 1943, la sua ‘prigione natale‘ come la definiva la Joplin, da Dorothy East, impiegata in un college e Seth Joplin, un ingegnere della Texaco, Janis era una ragazzina piena di complessi, in sovrappeso e con la pelle rovinata dall’acne.
Il suo rifugio fu la musica e così, a 17 anni, lasciò il college e fuggì di casa, per seguire le orme delle sue icone musicali: Odetta, Leadbelly e Bessie Smith.
Gli inizi furono nei club country&western di Houston e di altre città del Texas. Appena ebbe abbastanza denaro prese un bus per la California. Era l’era hippy e Janis, che ne condivideva appieno l’ideologia, entrò a far parte di diverse comuni, stabilendosi a San Francisco per alcuni anni. Per un caso tornò in Texas all’inizio del 1966, poco prima che un suo amico, Chet Helms, diventasse il manager di un nuovo gruppo Rock: i Big Brother and the Holding Company.
La band aveva bisogno di una vocalist femminile e Helms pensò a Janis. La contattò e la convinse a tornare a San Francisco.
Il gruppo divenne subito popolare in tutta l’area di San Francisco e fu chiamato a partecipare al Rock Festival di Monterey nel 1967. Una performance trionfale, bissata due anni dopo da Janis Joplin, questa volta come solista, a Woodstock.
Arrivò così il loro album d’esordio intitolato semplicemente con il loro nome, Big Brother and the Holding Company (Columbia Records, 1967); al quale seguirono una serie di concerti in tutti gli Stati Uniti. L’esibizione di Janis Joplin a New York, in particolare, entusiasmò la critica. Il successo la convinse così a lasciare la band per intraprendere la carriera solista. Nel 1968 pubblicò l’album Cheap Thrills, in cui spicca una particolare rivisitazione di Summertime di George Gershwin, ancora oggi giudicata l’interpretazione più straziante e memorabile di Janis Joplin.
Nel frattempo la cantante texana, a dispetto di un fisico non proprio da top-model, era diventata una delle icone del Rock al femminile, un sex-symbol a tutti gli effetti.
Un articolo apparso su The Village Voice recitava: «Pur non essendo bella secondo il senso comune, si può affermare che Janis è un sex symbol in una brutta confezione».
Nella sua carriera solista venne accompagnata dai Kozmic Blues Band: con loro realizzò il suo primo album: I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again Mama (Columbia Records, 1969). All’inizio del 1970 formò un nuovo gruppo, la Full-Tilt Boogie Band, con cui diede vita a un album-prodigio come Pearl (il soprannome con cui la chiamavano gli amici). Oltre a una versione di Me and Bobby McGee di Kris Kristofferson, il disco includeva hit come la trascinante Get It While You Can, la struggente Cry Baby e l’umoristica e dissacrante Mercedes Benz, composta da lei stessa.
Ma, prima che l’album fosse pubblicato, arrivò la tragica notte di Hollywood.
Forse quel ‘buco‘ doveva essere l’ultimo. Forse anche con l’eroina aveva deciso di farla finita. Ma quella notte si spezzò una vita e con lei una voce unica e inimitabile, ancora oggi, in tutta la storia del Rock. «Era una musa inquietante» scrive il critico Rock Riccardo Bertoncelli «una strega capace di incantare il pubblico, la sacerdotessa di un Rock estremo senza distinzione tra fantasia scenica e realtà».
Inutile dire che il suo stile e il suo esempio sono stati fonte d’ispirazione continua per le artiste che l’hanno seguita, da Patti Smith a PJ Harvey, solo per citarne alcune.
Janis Joplin ha vinto tre dischi d’oro: il primo con la Big Brother and the Holding Company per l’album Cheap Thrills, il secondo come solista per I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again Mama e il terzo, postumo, con Pearl.
Alla sua vita sono stati dedicati il film Piece of My Heart, con Brittany Murphy e, con il pezzo di Kris Kristofferson Me and Bobby McGee, riuscì a scalare dopo la sua morte quella classifica dei singoli nella quale, in vita, non era mai riuscita ad entrare. La critica oggi la considera all’unanimità una delle migliori interpreti bianche di Blues di tutti i tempi. Alcune settimane prima di morire acquistò una lapide più dignitosa per Bessie Smith, sua grande musa ispiratrice, deceduta in seguito ad un incidente stradale e non soccorsa subito per via del colore della sua pelle, come a volerle rendere giustizia.
Il destino, beffardo e infame come solo lui sa essere, ha voluto che anche il suo ultimo brano si rivelasse una macabra profezia: Buried Alive in the Blues, sepolta viva nel blues.
R.I.P Queen Janis…
ALEX PIERRO