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Nel 60esimo anniversario della nascita del Rock’n’Roll, da quel 5 luglio 1954 quando Elvis Presley pubblicò il suo primo singolo That’s All Right Mama, abbiamo raccolto la testimonianza di colui che forse per primo e più di tutti ha amato Elvis e la sua musica, fino a diventare l’icona del Rock’n’Roll made in Italy.
Bobby Solo, al secolo Roberto Satti, romano D.O.C, all’alba del traguardo dei suoi settanta anni che compirà il prossimo 18 marzo, si racconta in esclusiva per PaeseRoma.it e traccia un primo bilancio della sua incredibile vita e carriera.
Il ritratto che ne esce è quello di un grande artista, non ancora appagato nonostante i suoi innumerevoli successi, sempre pronto a rimettersi in viaggio.
On the road, come si conviene ad un vero Rock’n’Roll man.
– Bobby Solo: come nasce la scelta di questo nome d’arte?
La scelta non è stata mia, ma del mio discografico il Dott. Vincenzo Micocci, grande talent scout prima di RCA e poi di Ricordi. A lui piaceva americanizzare i nomi: Johnny Dorelli, Little Tony, Tony De Vita, Jimmy Fontana ecc. ecc. Due mesi prima di pubblicare il mio primo singolo, disse alla segretaria “Chiamalo Bobby” e la segretaria “E poi?” e lui “Solo Bobby”. La segretaria, Stelvia Ciani, ex cantante triestina, non ha capito la battuta e ha scritto “Bobby Solo”.
– Perché hai scelto il Rock’n’Roll come forma di espressione artistica? Chi erano e com’erano i rapporti con i tuoi colleghi dell’epoca?
La folgorazione è stata il Rock’n’Roll, ma successivamente ho amato molto l’Elvis Presley delle ballate, perchè di carattere io sono più Bluesman che Rock’n’Roll man. Il Rock’n’Roll necessita di una forte carica energetica, quella che gli americani chiamano Stamina.
Io sono uno con la pressione bassa, molto pigro e molto tranquillone, quindi mi son trovato molto bene nelle ballate. Ovviamente però l’impatto l’ho avuto con Tutti Frutti, Hound Dog e Blue Suede Shoes. A tredici anni vivevo a Roma e mi sono innamorato di una ragazzina americana, figlia di un giornalista del New York Herald Tribune: era una biondina con la coda di cavallo e gli occhi verdi, si chiamava Betsy e mi parlava di Elvis. Io conoscevo Mina, Celentano, Tony Dallara, non conoscevo Elvis. Nel 1957 una mia zia americana mi mandò degli extended play e quando ho sentito per la prima volta Tutti Frutti sono impazzito. È stato il Rock ad aprirmi la strada.
Poi ho scoperto che non tutti i Blues sono urlati: ci sono artisti che non hanno squagliato il microfono con la voce come John Lee Hooker.
Il Blues ha mille facce… A Chicago quando ci sono 20 gradi sottozero sono tutti incazzati neri e picchiano duro. Invece nella Luisiana c’è caldo, non ci si può arrabbiare, bisogna essere rilassati…
– Elvis fu notato dalla segretaria della Sun Records proprio come good ballad singer. Ti identifichi col Re per questa similitudine?
Lui ha avuto Marian Keister e io ho avuto Stelvia Ciani!
Non è presunzione. Non sempre, ma certe volte nella mia carriera ho avuto un turbo dietro la schiena, una forza vitale che mi ha fatto cantare certe sere come non ho mai cantato.
Io credo che sia lui dal cielo che ogni tanto i manda qualche scintilla. Non sempre però, perché sennò mi fulminerebbe!
– Quindi è stata intenzionale la tua ispirazione ad Elvis?
Io ho iniziato a ispirarmi a Elvis, se vogliamo proprio ad imitarlo, anche nella pettinatura, per piacere a Betsy. Però mi sono accorto, quando è tornata in America, che non è che le importasse un granché del mio amore, e allora mi rimase solo Elvis.
Non ho avuto più Betsy ma ho scoperto Elvis; ho cercato di capire le fonti da cui lui attingeva, perché nessuno “è nato imparato” (ride). Lui attingeva dal Gospel, dal Blues, gli piaceva Dean Martin, le canzoni Country, Bill Monroe con Blue Moon Of Kentucky. Aveva varie radici Country, Jazz… l’America, soprattutto nella parte del Tennessee, Mississippi, Oklaoma, Louisiana è un crogiuolo di etnie di tutti i generi che si mischiano insieme: non solo gli afroamericani, ma anche polacchi, gli ungheresi: loro hanno portato il violino nel Country. I tedeschi avevano uno strumento che aveva le corde come un’arpa che si chiamava Zitara. Loro hanno inventato il finger-picking perchè la Zitara si suona con delle unghie d’avorio. Tutte queste razze si sono mischiate insieme: gli irlandesi hanno portato le loro ballate che poi hanno ispirato il Country…
– Il fatto di essere accostato più volte ad Elvis ti ha più inorgoglito o più infastidito?
Ma ovviamente! La parola imitazione può raggiungere un livello patetico quando uno si mette frange, giubbottoni, fa le mosse ecc ecc., ma quando si cerca di capire il cuore da cui nasce quel tipo di musica e si cerca di seguire dei maestri immortali come Elvis Presley non è un’imitazione patetica, ma è una lezione: è come imparare a scuola.
– Cosa ti ricordi delle emozioni che provavi agli inizi, quando cominciavano ad arrivare dall’America, dall’Inghilterra tutte queste influenze? Cos’era il Rock’n’Roll all’epoca?
Per me il Rock’n’Roll è stato come la scintilla del Big Bang. La teoria dice che l’universo era racchiuso in una particella infinitesimale dalla quale si è sprigionato in pochi secondi.
Lo dice anche John Lennon che prima di Elvis c’era il nulla, una frase che ci ricorda un po’ la Bibbia. Io il Rock’n’Roll l’ho seguito, ho seguito Gene Vincent, Eddie Cochran, tutti quelli che hanno fatto Rock’n’Roll, ma penso che Elvis abbia raggiunto uno stadio metafisico: è andato oltre, è arrivato ad un livello inimitabile.
Gli altri, semmai, hanno imitato lui.
– Sei mai riuscito ad incontrarlo?
No. L’unica possibilità sarebbe stata quella di avere un autografo dopo Una lacrima sul viso, ma il colonnello Parker (manager di Elvis) disse che, siccome avrei potuto usarlo come speculazione pubblicitaria, dovevo pagarlo seimila dollari. Era un tipo molto esigente con i soldi. Io non avevo quella cifra perché non avevo ancora incassato le royalties che avrei preso dopo un anno (quelle che sono riuscito a prendere!) e quindi mi sono dovuto accontentare di una lettera di complimenti del Sig. David Sarnoff, allora presidente dell’RCA che penso abbia scritto al presidente della Ricordi.
– E se l’avessi incontrato cosa gli avresti detto?
Quello che ho detto a Johnny Cash nel ’66…
Ho inciso molti dischi in Germania, ho avuto una bella carriera, e all’epoca ero sotto contratto con la CBS. Mi portarono a vedere un concerto di Johnny Cash, June Carter e Carl Perkins nella base Air Force a Francoforte. Lui era nel camerino che giocava a flipper, era alto quasi due metri, con due spalle cosi e un cappotto di cuoio nero lungo fino ai polpacci. Si è girato e mi ha dato una mano che era una fiorentina: io ho due mani piccole, la mia mano è entrata dentro la sua ed è scomparsa e quelli della CBS mi hanno detto: “ma tu non dici niente?” e allora io ho detto: “Hello!”.
Non sapevo cosa dirgli.
– In quell’epoca, quando tu hai iniziato la tua grande carriera, si aveva già la percezione di quello che Elvis sarebbe stato, di cosa avrebbe significato per la musica, per il Rock’n’Roll?
Forse in Italia no, ma per noi si. Io, Little Tony ed Enrico Ciacci ascoltavamo un programma il venerdì sera sulla Rai: si chiamava Il Discobolo di Vittorio Zivelli. Durava 15 minuti, era il massimo dell’informazione.
Oggi i giovani, compreso mio figlio di 19 mesi, hanno a disposizione tutte le radio, tutti i network e il web, ma noi avevamo solo Il Discobolo. C’erano Little Richards, Pat Boone, Elvis Presley, Connie Francis, Joe Damiano che cantava Forever, Love Me Forever e basta.
Questo era il nostro mondo.
– 5 luglio 1954, That’s All Right Mama: questo è stato uno dei primi pezzi con cui l’hai conosciuto o è arrivato dopo dato che, come hai detto tu, in Italia tutto arrivava dopo?
No, devo dire in realtà che il primo pezzo che ho sentito su EP è stato Love Me Tender.
– Musicalmente quali sono state le scoperte che hanno più influenzato i tuoi pezzi e le tue canzoni?
Sicuramente Una lacrima sul viso mi è arrivata da qualche ballata di Elvis, anche se non riesco ad immaginare quale potrebbe essere stata…
– E invece il tuo brano forse più conosciuto?
Per Se piangi, se ridi ad esempio, mi sono ispirato ad una canzone dal titolo He Turns Me.
– Cosa rappresentavano per voi brani come Tutti Frutti e Hound Dog?
Tantissimo, anche se a me di Elvis piace ricordare i pezzi meno conosciuti,
– Il momento forse più triste per tutti gli amanti del Rock’n’Roll. Il 16 agosto 1977 Elvis scompare. Cosa ti ricordi di quel momento?
Mi ricordo che ero a cantare a Monte Flavio, vicino Roma, e intorno a mezzanotte e mezza sono arrivati due dj di 18 anni dicendo: “È morto Elvis”. Pensavo scherzassero… “Ma com’è possibile? Non vi credo…”. Ho pensato ad uno scherzo. Sono salito in macchina e mi sono sintonizzato su Radio Luxembourg che a quell’epoca era l’unica radio che trasmetteva Rock’n’Roll dalle sette alle otto di sera e Hard Rock a mezzanotte. Ma a mezzanotte e mezza sento It’s Now Or Never e dico: “Strano, non è l’orario. Sarà un caso o forse stasera il dj dell’Hard Rock non c’è…” poi mettono Fame and Fortune, dopo mettono Blue Suede Shoes… mmmhh… dopo 10 pezzi il dj dice: “The King of Rock’n’Roll is dead”. Ho cominciato a piangere. Ero già sul raccordo anulare e sono arrivato alla rotonda di Ostia, davanti al mare. Ho fatto l’alba piangendo e sentendo anche Antenne Europe Number One di Parigi, le radio italiane non lo menzionavano… Poi sono andato a dormire, alle otto di mattina mi sono buttato a letto, ho preso un sonnifero.. era come se fosse morto un parente.
– Ti sei mai chiesto cosa farebbe e come sarebbe oggi Elvis se fosse ancora vivo?
Diciamo che Elvis è stato un po’ sfortunato, essendo entrato in una macchina stritolante come quella dello star system americano, forse un po’ è dovuto probabilmente anche a qualche sua intemperanza. Una persona nata poverissima, con un gemello morto, un amore morboso per la mamma e viceversa, avrà avuto una vita sregolata, no?
Per cui non credo si sarebbe fatto dei lifting a 75/80 anni col silicone o delle plastiche o delle cure da Mességué. Ho un libro che mi hanno regalato sui suoi cibi preferiti come una frittata da 32 uova, mega hamburger e bibite: soda, Ccoca Cola… Credo che queste abitudini gli abbiano provocato uno scombussolamento molto forte.
Come sarebbe? Magari avrebbe fatto un miracolo, trovando un naturopata e tornando ad essere bello come a 30 anni, solo coi capelli bianchi come Babbo Natale, o sarebbe ancora un po’ obeso come molti americani.
– Credi che artisticamente avrebbe continuato o sarebbe piano piano caduto nel dimenticatoio?
Io credo che fosse destino che morisse giovane perché credo che in 42 anni abbia vissuto 100 vite delle nostre…
Quel tipo di successo che non puoi uscire di casa l’ho vissuto per due o tre anni: mi ricordo quando, insieme a Little Tony e a Morandi nel ’64-’65 al Cantagiro, fuori dall’albergo c’erano tremila ragazzine impazzite: ma dopo tutto è calato, le mode cambiano. Abbiamo avuto tutti una flessione nella carriera, un ridimensionamento che tra l’altro ci ha fatto molto bene perché a volte, quando il successo viene a mancare, e uno è drogato di successo, si può sconfinare nella depressione e anche nel suicidio.
Ricordo nel 1980 un usciere delle Edizioni Intersong a Milano che mi ha detto “signor Solo, la sua carriera è finita”. Io ho iniziato a piangere e non mi sono accorto che un autobus mi stava investendo.
Però toccare il fondo, non trovare più lavoro, è molto utile quando lo fai a metà della vita perché cosi puoi avere la fortuna (come nel mio caso) di risollevarti: sono arrivato a Canale 5 con Rosanna Fratello e Little Tony, ho lavorato cinque anni (col progetto Ro.Bo.T) poi ho fatto quattro Sanremo di fila… Riassaporare il successo dopo un amaro insuccesso, dopo un abbandono, è un po’ come uscire da un’operazione di quelle che ti dicono “non sappiamo se ne esci fuori” e poi guarire.
– A proposito del progetto Ro.Bo.T, un ricordo dell’amico Little Tony?
È il ricordo di una persona estremamente generosa: quando sono arrivato a Sanremo nel ’64 io avevo un cappottino della Rinascente a cui mamma aveva fatto l’orlo tre volte. Tony ha visto il mio ciuffo, la mia insicurezza e mi ha adottato subito. E sul suo Jaguar mi ha portato a tutti i pranzi e alle cene, pagando sempre lui: pesce, aragoste, scampi ché lui era già molto famoso anche in Inghilterra e io non sono mai riuscito ad offrirgli un pranzo… Lui mi ha regalato giubbotti, tre o quattro alla volta, una chitarra Jumbo che allora valeva sei milioni e poi si divertiva perché lui era davvero prigioniero, come Elvis, del mito; io sono sempre stato un dissacratore di me stesso, ho sempre visto questa mia carriera come un colpo di fortuna, ma non l’ho mai presa troppo sul serio… Ho preso più sul serio il sound, i microfoni a valvola, i suoni, i cori, gli arrangiamenti, i bassi, gli amplificatori, la parte hardware mentre invece il successo, il personaggio, l’immagine, il mito è il software.
È qualcosa di impalpabile, invece il groove è qualcosa di tangibile.
– A questo proposito notavo nel soundcheck che sei molto preparato e vai molto al passo con la tecnologia…
Si, non vedo perché mi debba sgolare se esiste un pre-amplificatore con compressione e equalizzazione che può mettere in risalto le sfumature della mia voce.
– Variety, tabloid americano, nel ’55 recitava: “Il Rock’n’Roll sarà passato di moda entro giugno”. Tu pensi che il Rock’n’Roll sia andato o stia andando in pensione o sia ancora vivo e vegeto?
Non può andare in pensione perchè il Rock’n’Roll è nel groove, che sicuramente viene dai fratelli neri, dall’Africa. Il groove è un qualcosa che va al di la di un accordo, ha a che fare coi ritmi tribali, con l’uomo primitivo. Nel Rock’n’Roll c’è il ritmo, c’è qualcosa che viene dal profondo dei tempi, non so come spiegarlo.. è viscerale, non potrà mai morire. È troppo profondo per morire. Sicuramente il sistema adesso è un po’ malandato e ha dovuto inventarsi dei suoni, come le batterie elettroniche, ma alla fine quello che dice Elvis nello show del ’68 è che la musica moderna è un misto di Gospel, Blues e Rithm’n’Blues. Anche il Blues è una musica molto profonda, è una musica che si può fare senza tanti artifici, con una chitarra e una voce… è impossibile che il Rock’n’Roll muoia. Quanti anni sono passati dal ’55? Dal primo Rock’n’Roll (Rocket 88)? Quindi mi sa che non muore più!
– Quest’anno è il 60esimo anniversario della nascita della Fender Stratocaster che ha legato indissolubilmente il suo nome a quello del Rock’n’Roll: tu ne hai mai posseduta una o ne possiedi una?
Se le mettessi tutte insieme potrei comprare un appartamento!
Io compravo una Telecaster ogni due mesi e una Stratocaster ogni tre. Le ho tutte rivendute; adesso la mia dotazione è 3 Stratocaster e 2 Telecaster, ma sono in procinto di comprarne una terza. Poi ho una Gibson Firebird e ho trovato anche una chitarra che ha usato Elvis, una Hagstrome Vicking fatta in Cina però perché ormai gli svedesi non le fanno più, però suona uguale e Elvis l’ha tenuta in mano nello special del ’68,
– Secondo te perché questo strumento è legato cosi fortemente al Rock? Perché quel modello, perché quel timbro?
È difficile dirlo, ma credo che alla fine noi siamo abituati da sessant’anni a sentire quei suoni, quindi non possiamo dire che il suono della Stratocaster o della Telecaster siano in assoluto i suoni migliori del mondo. C’è stato un approccio tra dei geni chitarristi e uno strumento che in origine è un’estensione della chitarra hawaiana. Io penso che Fender abbia preso dai pickup delle chitarre hawaiane e le abbia modificate per evitare il feedback. Fender era un genio, non si può dire niente: Fender è Fender,
– Che effetto ti ha fatto vedere Jimi Hendrix a Monterey nel ’67 bruciare la sua Fender sul palco?
Io ero talmente preso da Elvis che non ho visto nessun altro. Ho scoperto la genialità di Jimi Hendrix solo dopo, durante la mia maturità. Perché quando ero preso da Elvis ero come uno che ama una donna e non vede nessun’altra e solo dopo si accorge che il mondo è fatto di tante donne, e cosi anche io mi sono accorto…
Ancora oggi i suoni di Jimi Hendrix sono la bibbia della Stratocaster e della chitarra.
– Chiudiamo con una riflessione; sicuramente saranno state tante le persone che ti hanno aiutato nella tua carriera, che hanno reso possibile tutto questo. Una su tutte che ti viene in mente?
il papà di Mogol. Io ho fatto tre dischi per la Ricordi e il papà di Mogol era il direttore delle Edizioni Ricordi, si chiamava Mariano Rapetti ed era un signore di 64 anni, con i capelli grigi, gli occhi di un taglio mediorientale e i baffoni come Gatto Silvestro. Mi considerava come un nipote: la Ricordi mi voleva mandare via, i miei dischi avevano venduto poco e lui un giorno mi disse: “Non hai qualche idea, qualche canzone?” allora io gli ho cantato questa lacrima sul viso con un testo inventato da me e lui mi ha detto “ci metterà le mani mio figlio Giulio (Mogol)”.
Credo che se Mariano Rapetti non avesse insistito, la Ricordi mi avrebbe mandato via e io me ne sarei fatto una ragione e mi sarei impiegato all’Alitalia dove mio padre era un dirigente. Ma mi viengono in mente anche il dott. Micocci, il maestro Donida che mi ha insegnato delle leggi della composizione, tante persone…
– Per chiudere un aneddoto scherzoso: quella volta che alla partenza hai dimenticato il passaporto…
Col grande Rolando D’Angeli, mio primo manager, impresario e amico!
Dovevo sostituire Raffaella Carrà a Cannes e il mio cachet era raddoppiato, così per l’emozione ho dimenticato il passaporto a casa. Mancavano trenta minuti alla partenza e io abitavo a più di mezz’ora dall’aeroporto. Lui mi ha detto “Vallo a prendere” e io “Rolando, non c’è speranza, ormai non lo prenderemo più questo aereo!” e lui “Vai!!”. E così sono andato. Tornato dopo un’ora, ho visto tutti i passeggeri ancora a terra, con le valige aperte sotto l’aereo e la polizia con i mitra, perché qualcuno aveva telefonato dicendo che c’era una bomba sul volo Roma-Nizza. Siccome ci tenevo alla vita, e ci tengo ancora adesso, gli ho detto: “Rinuncio alla doppia paga” e lui “ Stai zitto”. Solo a metà viaggio, mentre io immaginavo già che la bomba stesse per esplodere, mi ha confessato: “Sono andato a un telefono pubblico” – non c’erano i telefonini che potevi essere rintracciato, sennò lo arrestavano subito – e ho detto: Brigate Rosse, c’è una bomba sul volo Roma-Nizza”.
Così ha bloccato la partenza per due ore e siamo riusciti ad arrivare in tempo per lo spettacolo.
The Show Must Go On…
ALEX PIERRO