ROMA – A tu per tu con il regista, sceneggiatore e attore Matteo Maria Dragoni in uno speciale pomeriggio all’ombra del Colosseo.
Da due anni sta portando in scena la commedia brillante “Coppia aperta, quasi spalancata” di Dario Fo e Franca Rame: sua compagna di viaggio sul palco la bravissima Virginia Risso che lui stesso definisce “una grandissima professionista con cui siamo in perfetta simbiosi”.
Diplomato presso l’Accademia di Arti Drammatiche “Teatro Senza Tempo”, si è laureato in Arti e Scienze dello Spettacolo presso l’Università La Sapienza di Roma: dallo scorso settembre insegna il mestiere dell’attore nella Scuola di Recitazione KA.ST presso il Teatro Due in Vicolo dei Due Macelli, a due passi da Piazza di Spagna.
Hai mosso a soli 14 anni i primi passi nella recitazione: praticamente eri un predestinato
Più che altro me lo sono imposto di esserlo. E’ stato un amore da sempre. Ho subito capito che ero felice stare su un palco.
Ma i tuoi genitori non ti chiedevano di iscriverti, ad esempio, a una scuola di calcio anziché di recitazione?
Considera che mio papà è medico e avrebbe voluto che anche io intraprendessi gli studi di medicina, andai anche a fare il test di ammissione all’università ma fortunatamente per me (sorride, ndr) sbagliai la prova scritta. A 21 anni mi sono trasferito a Roma per coltivare questo mio sogno. Devo dirti che, se all’inizio i miei genitori erano un po’ scettici, oggi sono orgogliosamente i miei primi tifosi e vengono a vedermi da Teramo quando possono.
Da attore a sceneggiatore e regista: ma ti vedi più a dirigere dietro le quinte oppure come protagonista sul palco?
Devo dirti che non potrei mai rinunciare a fare l’attore. Sul palco sto bene con me stesso. Con quella stessa felicità di quando avevo 14 anni. Quando vesto i panni di regista ti confesso che a volte mi prende quella voglia di salire sul palco e stare insieme agli attori.
Ora che insegni questa bellissima professione ai giovani, qual è la prima cosa che cerchi di individuare in un allievo? La gestualità, l’espressività, il tono della voce, la duttilità in scena: quale caratteristica personale insomma ti deve colpire di più?
Se devo proprio trovare una qualità singola in un allievo ti direi il suo sguardo: come guarda anche quando reagisce alle singole situazioni. Poi, come tutte le professioni, dietro ci deve essere tanto studio, tanta applicazione, tanta costanza, tanta tecnica: a noi in accademia ci dicevano che la prima cosa che contraddistingue subito un attore in scena è il proprio corpo. Quando inizi a studiare il primo passo è proprio la cura e il perfezionamento del proprio corpo e del proprio movimento nello spazio. La sua armonia: come un attore si muove, come cammina, perfino come respira. E poi, come si dice adesso, c’è tra virgolette il cosiddetto fattore X che non è altro che un proprio indistinguibile valore aggiunto che rende un attore non tanto più bravo degli altri ma lo definirei più “acceso” degli altri.
Se un tuo allievo ti chiedesse quali prospettive, quali opportunità lavorative offre oggi questa professione, cosa gli risponderesti? Considerando che in Italia c’è ancora chi chiede, a chi si presenta come attore nella vita, ma “di mestiere però cosa fai”…
Gli risponderei semplicemente: le opportunità che riesci a trovare. Perché le prospettive e le occasioni sono infinite, poi sta a te saperle coglierle.
Quindi da questi sacrifici giornalieri nascono più soddisfazioni per i risultati che ogni volta si raggiungono o nascono più speranze per il futuro?
Personalmente ho imparato ad essere soddisfatto di tutti i sacrifici che faccio. Durante il mio percorso ho visto tanti colleghi che hanno abbandonato o comunque si sono in qualche modo lasciati andare finendo per fare altro nella vita. Il primo anno in accademia eravamo 20 allievi, al terzo anno eravamo rimasti solamente in otto. C’è inevitabilmente una selezione naturale. Come mi dicevano in accademia, per fare questo mestiere devi avere fame costante. Non ti puoi adagiare, non puoi dire “oggi non mi va, oggi non lo faccio”, perché allora non sei adatto. Non rassegnarsi di fronte alla difficoltà, perché ai propri sogni non si rinuncia. Mai. Anche quando gli ostacoli sembrano insormontabili, perché è proprio lì che deve uscire la tua forza: se non ti arrendi per te ci sarà sempre un’altra occasione. Il talento, senza passione, impegno e sacrificio, resta solo una potenzialità. Devi avere allora voglia e costanza per accrescere questa potenzialità.
Secondo te cosa manca in Italia per riuscire a trovare la giusta soluzione per far convivere la cultura con gli investimenti dello Stato e con le esigenze del mercato?
La risposta è più facile di quello che si possa pensare: semplicemente manca la volontà di farlo. Il primo intervento? Iniziare a far conoscere ogni forma di arte nelle scuole ai piccoli studenti. In altri Paesi si studia recitazione a scuola, ma non perché nella vita devi fare per forza l’attore ma perché l’arte di aiuta a conoscere meglio te stesso. Il teatro è una scuola di vita: il successo è una conquista con il lavoro che fai su te stesso, imparando anche a comprendere i tuoi errori e i tuoi limiti.
Quella tra l’attore di teatro e lo spettatore è inevitabilmente un’esperienza intima: se il pubblico in sala è poco attento l’attore lo percepisce?
Certo. Il pubblico della platea lo avverti tantissimo. L’empatia, come pure l’interpretazione personale, è importante per fare questo mestiere. Quello che impari a fare nel tempo è “adattare” il tuo personaggio in scena, sebbene come da copione sia sempre lo stesso, ovvero imparare a “rispondere” in base al pubblico che hai in sala ogni sera. Come se il pubblico dovessi “accompagnarlo” tu.
Ma quando si spengono le luci del teatro, una parte di te resta ancora sul palco come se la magia dell’attore fosse questo gioco emozionale tra realtà e finzione?
Dipende anche dal legame che si è creato con il personaggio che stai interpretando. Alcuni personaggi li lascio andare via subito come finisce lo spettacolo, di altri somatizzi ad esempio dei tic che dal palco sostituisci poi a tuoi gesti, alle tue espressioni, ma quando passa del tempo realizzi chiaramente con il sorriso che quel particolare difetto incontrollato, che apparteneva solamente a quel personaggio e che avevi fatto tuo sul palco, in realtà non ti appartiene nella vita quotidiana.
Quanto, allora, il tuo talento di attore ha inciso nella tua personalità fuori dalle scene?
Ha inciso positivamente tanto. Da ragazzino mi sentivo in soggezione con l’altro, con lo sconosciuto: il teatro ti toglie qualsiasi tipo di inibizione. Ti insegna a saper comunicare con l’altro, a gestire la parola, a guardare negli occhi le persone e, soprattutto, a non vergognarsi mai di trasmettere emozioni.
Quelle emozioni che ha saputo regalarci attraverso le sue parole. A volte sussurrate, perché figlie di un’umiltà che lo contraddistingue dentro e fuori il palcoscenico. Investire nel teatro è un atto di coraggio ma, soprattutto, di amore come lui ha tenuto a sottolineare. A 29 anni ha già bruciato molte tappe ma che il suo traguardo più bello debba ancora arrivare è molto più che una sensazione. Perché traspare ancora in lui tutta quella felicità di stare sul palco di quando era ancora adolescente. Una felicità che sa trasmettere semplicemente con i suoi occhi.