Roma, 22 marzo
Dal 27 febbraio al 23 giugno, il Vittoriano ospita la mostra dedicata a Giorgio Morandi, uno dei più grandi artisti del Novecento. L’esposizione, curata da Maria Cristina Bandera, si avvale di prestiti provenienti da importanti istituzioni pubbliche e collezioni private, inclusi alcuni capolavori meno noti al grande pubblico.
La modernità e il complesso itinerario intellettuale e emotivo di Morandi trova espressione in motivi ripetuti e rinnovati: nature morte, paesaggi e fiori. La mostra rivela un centinaio di dipinti a olio, incisioni, disegni, acquerelli e opere caratterizzate dalle sottili variazioni di uno stesso tema all’interno dei diversi generi trattati dall’artista.
Il percorso è, dunque, cronologico e tematico: dalle prime opere, nel solco delle avanguardie e della tradizione italiana, si giunge a quelle degli ultimi anni, caratterizzate da una progressiva rarefazione e pervase da un’inquietudine tutta moderna. Le parole di Morandi: «Credo che nulla possa essere più astratto, più irreale, di quello che effettivamente vediamo. Sappiamo che tutto quello che riusciamo a vedere nel mondo oggettivo, come esseri umani, in realtà non esiste così come noi lo vediamo e lo percepiamo».
Giorgio Morandi nacque e morì a Bologna in un’apparente solitudine che tuttavia non gli impedì di entrare in contatto con altri artisti e di misurarsi con la loro esperienza: Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Caravaggio, fino alla scoperta della moderna pittura francese, e in particolare di Cézanne. Infatti, a partire dalle sue Bagnanti, Morandi si cimentò nella rappresentazione della figura umana, che poi abbandonò ben presto limitandosi a qualche raro autoritratto.
La primissima e personale adesione al Futurismo e la conoscenza delle illustrazioni di opere di Picasso e Braque si riflette in alcune sue rarissime opere degli anni d’esordio che saranno presenti in mostra. Nel 1917 conosce de Chirico e Carrà. Incontro che lo porta a elaborare, tra il 1918 e il 1919,una sua personalissima “metafisica degli oggetti comuni”. Subito dopo partecipa a Valori Plastici, movimento caratterizzato dalla ricerca di un nuovo plasticismo. Già a partire dal 1920 si assiste a un ritorno alla realtà e a una ricerca più autonoma e ormai svincolata dalle avanguardie.
Negli anni Trenta riceve i primi importanti riconoscimenti critici. Nel 1930 ottiene per fama la cattedra di tecnica dell’Incisione all’Accademia di Belle Arti di Bologna, che manterrà per 26 anni. In questo quarto decennio del secolo si dedica assiduamente alle acqueforti e, nei suoi dipinti, alla ricerca sulla materia pittorica. Risalgono a questo momento le tele ricche di pastosità, opere che, come scrisse l’amico e letterato Giuseppe Raimondi: «guardate in controluce, aggiungono alla superficie di un dipinto la densa trama di un tessuto».
Nel decennio successivo, quello attraversato dalla Seconda guerra mondiale, Morandi continua a rielaborare i temi consueti della sua arte: Nature morte, Paesaggi e Fiori. Temi a cui si dedicherà, in una ricerca costante, fino agli ultimi anni della sua attività, in opere caratterizzate da un processo di rarefazione e di spoliazione dei dati del visibile e da un colore che diventa sempre più sofisticato.
Il successo internazionale attestato dal premio per la pittura, ottenuto alla Biennale di San Paolo del Brasile nel 1957, precedendo Marc Chagall, e l’interesse crescente per la sua pittura da parte di importanti collezionisti, si riverbera nella presenza di sue opere nei set della Dolce vita di Federico Fellini nel 1960 e de La notte di Michelangelo Antonioni nel 1961.
La capacità dell’artista di “abitare il Tempo” è testimoniata, tra gli altri, dagli scritti di Pier Paolo Pasolini, Paul Auster, Don De Lillo e dalle parole dell’artista Giulio Paolini: «Un quadro di Morandi è piuttosto un “quadrante” che registra e riferisce le ore, la luce e le ombre di ogni giorno, posate sugli oggetti che di quel tal giorno si fanno muti ma sapienti testimoni tra le pareti silenziose del suo studio». Di un “miracolo della condivisione di un sogno” parla il regista Ferzan Ozpetek, osservando come la naturalezza quotidiana degli oggetti o dei brani di paesaggio divenga “universale” e si trasformi “in una cosa nostra”.
di Donatella De Stefano