Porta Chiusa, l’adattamento a quattro mani dei registi Emilia Miscio e Marco Petrino dell’atto unico, un classico dell’esistenzialismo francese, del gioco dell’assurdo e ritratto a tutto tondo della filosofia-manifesto di Jean-Paul Sartre, ha replicato ieri, per l’ultima volta in programma, al Teatro Le Salette – nel cuore della popolare e caratteristica zona a ridosso del Vaticano. “Un teatro che potrebbe essere sentito alla radio, ad occhi chiusi, senza acrobazie o tensioni muscolari; un teatro fatto di logica e di voce”, quello di Sartre, con qualcosa in più quello andato in scena al Teatro Le Salette. L’aspetto chiave su cui si è ricostruito lo spettacolo è la doppia regia di Emilia Miscio e Marco Petrino. L’inferno sartriano supera i confini della rappresentazione teatrale e senza effetti speciali raddoppia il punto di vista dei tre drammi presenti nell’opera.
“Vous voyez donc que, rapports avec les autres, encroûtement et liberté , liberté comme l’autre face à peine suggérée, ce sont les trois thèmes de la pièce. Je voudrais qu’on se le rappelle quand vous entendrez dire : “l’enfer c’est les autres.””Quindi, ecco: rapporti con gli altri, abitudini incrostate e libertà, e libertà come altra faccia, appena suggerita, della medaglia; questi sono i tre temi del dramma. Vorrei che questo venisse ricordato quando sentirete dire: ‘l’inferno, sono gli altri’ “ (J.-P. Sartre, Un théâtre de situation, Gallimard, Paris, 1973 – a cura di Michel Contat e Michel Rybalka).
Tra visioni del passato e intime confessioni, i condannati, dall’aldilà, parlano di sé. Introdotti dal cameriere (Davide De Santis – imperioso, sornione e virgiliano insieme), il primo a fare il suo ingresso nell’inferno è Joseph Garcin (Marco Petrino – interpretazione: un doppio tuffo mortale senza rete riuscito), un ex giornalista di Rio. Subito dopo è la volta di Inés Serrano (Ilaria Buiarelli – burattinaio superlativo, plagia la coppia a suo uso e consumo), “il maschiaccio” impiegata alle poste. Ultima è Esthelle Rigault (Carla Diomedi – veste i panni della sicurezza e della spavalderia finché non cala la maschera e gli abiti pregando Garcin:”Raccattami, prendimi nel tuo cuore… Non sono più che una pelle…Mi metterò sul tuo divano e aspetterò che tu ti occupi di me”), una ricca parigina che ha trascorso la sua vita tra feste e salotti mondani. Et voilà: un altro adattamento di Huis clos, testo teatrale del 1944 di Sartre proposto sul palcoscenico con una curiosa ma interessante variante. L’idea è singolare: doppia regia, doppio punto di vista palesemente percettibile che si alterna nell’unico atto, dichiarato dal buio/luce dei riflettori e asserito dagli apparati scenici (minimali in questo caso) in cui gli interpreti giocano (anche bene visto le doppie difficoltà!) il ruolo delle parti. Facendo fronte con l’approccio nuovo della doppia regia al testo significativo e alle tematiche della drammaturgia sartriana, si costruisce un doppio spettacolo in cui le tre “voci”, in modo diverso e con punti di vista differenti, si fanno però voce di una sola sofferenza e di un’unica coscienza, in lotta con l’accettazione di sé e con la realtà di giudizio dell’altro vivo e distante, prima (grazie all’ausilio dell’audiovisivo), e dell’altro affine e contiguo, dopo.
La prima regia, di Emilia Miscio con i cortometraggi remake del mondo che si è lasciato, è il proemio alla parte più profonda della rappresentazione e del suo finale. Sul palcoscenico, la scenografia offre oltre a una camera senza finestre e senza specchi con tre scarne sedute “stile Impero”, un tagliacarte, un campanello mal funzionante ed un bronzo. La porta attraverso la quale vengono fatti entrare i tre ospiti-prigionieri in realtà non è del tutto chiusa, ma la vera schiavitù è decretata dal cerchio infernale dei rapporti che si instaurano e dell’importanza della propria immagine per gli altri. “Signore, ha per caso uno specchio? Uno specchio, un vetro, qualche cosa? … almeno mi procuri uno specchio” chiede Esthelle a Garcin, mentre rivolgendosi a Inés dice:”Negli specchi la mia era un’immagine addomesticata. La conoscevo tanto bene…Ora sorriderò, il mio sorriso arriverà in fondo alle sue pupille, e Dio sa che cosa diventerà.”.
Mai perdere di vista il fatto che Porta chiusa è uno sguardo sull’abisso, un dramma che affronta alcuni dei temi più cari a Sartre, quali la libertà, il valore delle scelte, il rapporto con gli altri e il senso dell’esistenza. Ecco come le attinenze fra i tre identificano simbolicamente relazioni interpersonali, abitudini e il sentirsi continuamente osservati, valutati, giudicati e fare parallelamente lo stesso, ma come rappresentino anche libertà. E’ la scaltra Inés che in seguito affermerà:” per vivere io mi occorre che gli altri soffrano. Essere una torcia. Una torcia dentro i cuori degli altri. Quando sono sola mi spengo.”
Si può saldare quella frattura evocativa tra peccato, conoscenza e crisi esistenziale con l’espiazione delle pene attraverso il supplizio di quell’albergare misto di immaginario e reale? Come si supera questa misera condizione individuale e collettiva? L’inferno sartriano si oltrepassa e valica i confini della stanza e/o della porta chiusa che lo contiene, solo grazie a scelte, selezioni, distinzioni da decidere ed azioni, atti, gesti da compiere: emblemi di libertà da conquistare e difendere. Il gioco crudele della sofferenza di Sartre, quindi, è un preludio dell’affermazione della libertà; è mostrare l’essenza della libertà, senso dell’esistenza e responsabilità nei rapporti interpersonali.
Su tutto ciò si vuol fare inciampare lo sguardo e l’attenzione dello spettatore – il filosofo di ieri insieme ai registi di oggi – oltre che sul ruolo ciclico di estrema ferocia che riveste ciascun protagonista e di cui non si riesce a distinguere quanto questo/a sia vittima e quanto invece sia carnefice tanto i rapporti tra Garcin, Inés, Esthelle, siano in pieno equilibrio e correlati fino allo spasimo generale. Infatti Garcin, qualche scena più avanti, dichiarerà:”Tutti questi sguardi che mi divorano…Oh siete soltanto due? Vi credevo molti di più. E’ questo dunque l’inferno? Non lo avrei mai creduto. Vi ricordate il solfo, il rogo, la graticola … buffonate! Nessun bisogno di graticole; l’inferno sono gli Altri.” Naturalmente questo può essere opinabile e diversamente inteso. “Guardate che cosa semplice: insipida come una rapa. Non c’è tortura fisica, va bene? …In conclusione chi ci manca? Manca il boia”; e poi Inés prosegue e amaramente dice:”Il boia, è ciascuno di noi per gli altri due”.
La seconda regia, quella di Marco Petrino, porta al centro dello spazio scenico telecamere, tre catene e l’immagine moderna del rosso Confessionale del Grande Fratello. I tre si ascoltano, ma sembrano insensibili e indifferenti di fronte alle parole e al dramma che richiama in un modo o nell’altro il proprio: egoisticamente fagocitano e ripercorrono desideri personali a discapito di chi in quel momento è autore della confessione e dell’ammissione di colpa. Garcin, Inés e Esthelle ingannano l’assoluzione durante la confessione dei loro atti: all’inizio di ciascuna compare il cameriere con in mano una catena che abbandonerà sul palco a disposizione degli attori, i quali di volta in volta la utilizzeranno per sbarrare per sempre il passaggio verso l’uscio che porta fuori dalla camera.
Intanto il dolore assordante svuota le anime dei tre interpreti e solca distanze e confini di quel vuoto esistenziale, trasfigurazione di rapporti passati ma anche presenti, fra le pareti al di qua della porta chiusa. Un sonoro isolamento circuisce gli spettatori palesemente abbacinati da ritmo incalzante e avvolgente. I volti, i corpi dei tre non si sottraggono a confronti e a tensione, mai liberi si rincorrono sul palco a volte buio a volte illuminato a giorno, sotto la disamina circospetta, angosciosa, cattiva e curiosa di ciascuno di loro. Nessun sentimento si dissolve ma resta vivo, carico e pronto a deflagrare, a ferire e far male. Niente si dissolve negli occhi dell’altro, anzi. Così Garcin, Inés e Esthelle da incriminati e incriminanti perpetuano le loro malefatte e i loro tormenti.
La rabbia, l’abbandono, la solitudine, le innumerevoli polemiche, i fraseggi immorali e le azioni esecrabili nella pièce suscitano, con la doppia visione di messa in scena, una sconfinata, scellerata e interminabile girandola di emozioni estreme, un climax abietto e sacrilego che provoca e sfida finzione teatrale e realtà astante. Registi, attori e pubblico veicolano e condividono il messaggio arrogante e incontenibile del drammaturgo esistenzialista. “Quel que soit le cercle d’enfer dans lequel nous vivons, je pense que nous sommes libres de le briser. Et si les gens ne le brisent pas, c’est encore librement qu’ils y restent, de sorte qu’ils se mettent librement en enfer.””Qualunque sia il cerchio dell’inferno nel quale viviamo, penso che noi siamo liberi di romperlo. E se una persona non lo rompe, è ancora liberamente che sceglie di restarvi, al punto di mettersi liberamente all’inferno.” (J.-P. Sartre, Un théâtre de situation, Gallimard, Paris, 1973 – a cura di Michel Contat e Michel Rybalka).
Personalità che s’intrecciano e che paradossalmente esagerano il loro dolore e il loro isolamento quando provano a cercare comprensione e riscatto. I protagonisti sono letteralmente sbattuti l’uno contro l’altro con gesti e parole crudeli che accentuano in modo sovrumano ed infernale dolori, dubbi, passioni, vizi e difetti, riflesso delle vite passate che non si dissolve nello sguardo insensibile e spietato di quella stanza dalla porta chiusa. Ciascuno di essi è incatenato e prigioniero in un vortice esistenziale negativo, distruttivo e distruttore. Questo circolo, che evidenzia le carenze, i limiti dell’opera altrui in vita, senza tuttavia proporre nulla di meglio, o una soluzione per espiare i propri errori, se non quello di convivere con essi e i carnefici ritrovati per il resto dell’eternità quasi godendo della situazione. Non se ne può più fare a meno, tanto che alla fine dell’atto unico quando Garcin si accorge – Colpo di Scena! – che la porta della stanza non è mai stata chiusa dall’esterno mentre impreca:“… Meglio cento morsi, meglio la frusta, il vetriolo, che questa tortura di cervello…Vi decidete ad aprire? (La porta s’apre bruscamente e per poco non si scardina) Oh!”, proprio lui è il primo a non pensare alla fuga, quella fuga che potrebbe essere la liberazione da tutto il male inutile e penoso che l’aveva, fino a quel momento, ingabbiato. E rimane. Anzi nessuno dei tre personaggi esce dalla stanza: la vera prigione è ciò che ognuno di loro rappresenta per l’Altro; tuttavia hanno necessità di stare insieme in quanto “ogni sguardo ci prova concretamente che esistiamo per tutti gli uomini viventi, cioè che ci sono (delle) coscienze per le quali esisto”. (J.P. Sartre, L’Essere e il nulla, cit. p. 354 e L. Verona, Théâtre de Jean Paul Sartre, Cisalpino, 1994).
La porta è richiusa e così si chiude il sipario sulla risata caustica, piena e sfacciata dei tre – che condivideranno per sempre la loro tragedia – e lo spirito insolente di Garcin che esala:“E va bene, continuiamo…”.
Le svolte inaspettate, le testimonianze forti, gli sfondi piccanti, i momenti violenti, le contese convulsive, accordano di accompagnare il pubblico alla scena conclusiva strappandone i lunghi applausi nonostante il drammatico, irriverente e inaspettato epilogo.
Maria Anna Chimenti