Riccardo Vitanza, fondatore e amministratore unico di Parole e Dintorni, una delle agenzie di comunicazione in ambito musicale più importanti (se non la più importante) in Italia. Questo è il ruolo pubblico, che tutti conosciamo. Ma chi veramente Riccardo Vitanza quando chiude la porta del suo ufficio e spegne la luce?
Continua a essere Vitanza, o forse un po’ meno Vitanza e un po’ più Riccardo. In realtà sono due facce della stessa medaglia, anche in ufficio è più Vitanza, ma ogni tanto spunta Riccardo. Intendo dire che Vitanza è un gran figlio di p…, sono il primo a riconoscerlo.
Sono uno molto severo e molto rigoroso con chi lavora con me. A volte faccio cadere la scure al primo errore e non do una seconda chance. Mi arrabbio molto e sono un tipo collerico, lo confesso. Mi arrabbio anche per un nonnulla, proprio perché cerco di trasmettere alle persone e al personale la giusta attenzione che si deve avere quando si fa questo lavoro. L’attenzione, la lucidità e la concentrazione non devono mai mancare, in un qualsiasi momento. È un po’ come, volendo fare un paragone calcistico – essendo juventino – l’allenatore che ci ha fatto vincere tre scudetti e che adesso è l’allenatore di tutti perché allena la nazionale. Mi sento un Conte. A uno come Conte sono sempre stato vicino, lo capisco… Chiaramente tendi a usurarti molto e a usurare gli altri. La persona che è all’inizio soffre molto di più, perché io tendo a bastonare molto in principio. Poi, col passare del tempo, supero le barriere e divento un po’ meno Vitanza e un po’ più Riccardo… La coinvolgo di più, la gratifico economicamente, la gratifico professionalmente. Sono un datore di lavoro alquanto atipico, perché do aumenti di stipendio ogni anno, bonus. Se una persona mi chiede delle ore di permesso o giorni di ferie, salvo rarissimi casi, non dico mai di no. Anzi io stesso a volte, se hanno lavorato durante il week-end, regalo dei giorni. Li esce molto Riccardo. C’è il Vitanza ‘stronzo’ e il Riccardo buono, generoso. In ufficio sono così. Fuori cerco di fare uscire di più il Riccardo con gli amici, con le persone vicine a me, però spesso- vuoi perché queste persone sono anche parte di questo mondo in cui vivo e in cui lavoro – alla fine c’è ancora Vitanza, purtroppo. Perché a volte anche i rapporti privati ne risentono, è successo spesso in passato e ogni tanto succede anche adesso. Anche se con la vecchiaia, allo scoccare dei cinquant’anni, uno comincia anche a capire che forse è il caso di porre un freno a tutta una serie di cose, a mitigare, a temperare un po’ di più le mie due facce della stessa medaglia.
Fuori di qua non ho chissà quali hobby o chissà quali frenesie e passatempi. Sono abbastanza monotono, nel senso che ho i miei ristoranti di fiducia, vado spesso al cinema, ho le mie partite da vedere – ahimè non più da giocare – quindi la mia Juve non me la perdo mai, le mie passeggiatine e le persone più care. Non sono uno che progetta grandi feste. Ogni tanto ho bisogno dei miei pit-stop come li chiamo io, quindi prendo e vado, spesso in Kenia, a Malindi, dove ho una casa. L’Africa è il continente dove sono nato, Eritrea per la precisione, e quindi amo tantissimo andare lì. Io sono uno che lavora ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette, ma a un certo punto il corpo dice ‘fermati’ e allora mi devo fermare perché non ho più l’età per poter andare avanti. Quando esco di qua e già sera inoltrata. Vado a dormire molto tardi, intorno alle quattro del mattino e mi sveglio alle nove, non riesco a fare altrimenti.
In realtà cerco di stemperare il nervosismo della giornata. Capita spesso che la prima persona che incontro a cena mi veda adirato. Perché è successo questo, per una cosa o per l’altra. Poi però, dopo tre minuti, sono il primo che dice «Senti un po’ Riccardo, adesso basta! Vitanza esci da questo corpo! Lascia spazio a Riccardo!» (ride). E cerco di farlo, ma non è facile purtroppo, perché ho basato quasi tutta la mia vita sul lavoro, sacrificato tante cose, gli affetti in primo luogo. Non ho una famiglia, non ho figli. Ho sacrificato tante cose sull’altare del lavoro, proprio perché sono sempre stato uno stachanovista, mi è sempre piaciuto lavorare e ho un fortissimo senso di responsabilità in generale, ma soprattutto sul lavoro. Quindi, purtroppo, mi porto il Vitanza anche nella vita privata.
Studi giurisprudenza, inizi a lavorare come copywriter, in seguito passi alla gestione di un locale etnico di Milano, lo storico Zimba, e da li all’organizzazione del tour di Ziggy Marley, a cui seguiranno molti altri, primo fra tutti Jovanotti. Ma come nasce l’idea di aprire un’agenzia di comunicazione? E perché proprio in ambito musicale? Avevi delle velleità da musicista? Hai mai suonato o il tuo interesse per la musica era solo da ascoltatore e appassionato?
In realtà io sono arrivato alla comunicazione musicale molto per caso. Da piccolo volevo fare il giornalaio o il giornalista, volevo stare fra i giornali. Io facevo un giornalino a otto anni in Africa, un giornale che davo agli amichetti, ai ragazzi. Poi, a undici anni, ho lasciato l’Eritrea, sono arrivato in Italia e tutta la vita cambiata. I miei genitori avevano perso tutto quello che avevano, qui in Italia abbiamo fatto realmente la fame. Quando oggi vedo quelle persone che chiedono perché hanno veramente fame, io so cosa vuol dire, l’ho passata… L’ho passata in Eritrea, quando mangiavamo pane nero perché non c’era la farina bianca e l’ho passata anche in Italia, perché comunque la mia famiglia è sempre stata una famiglia povera, semplice, umile. I miei genitori sono due angeli però io ho passato veramente l’adolescenza con due paia di pantaloni. Vendevo i libri dell’anno prima per comprarmi quelli dell’anno dopo. Ricordo che per comprare un paio di occhiali da duecentodieci mila lire che era il mio sogno, perché volevo cambiare la montatura, ho aspettato ventuno mesi. Ho fatto ventuno mesi di paghetta da diecimila lire al mese senza comprarmi nemmeno un gelato e dopo ventuno mesi li ho comprati con i miei soldi. Poi, arrivati a Milano, mi sono iscritto a giurisprudenza. Avevo una zia tedesca che mi ha ospitato a Milano e che voleva assolutamente che io continuassi a studiare, però era un periodaccio per la mia famiglia. Avevo un fratello disoccupato, un altro che si era appena sposato, con una figlia e quindi aveva altre priorità, doveva mantenere la famiglia. Mio padre pensionato (lui gestiva un distributore di benzina in Eritrea, pace all’anima sua) che appena arrivato in Italia aveva scoperto che in trentacinque anni di lavoro in Africa il suo datore di lavoro gli aveva versato solo cinque anni di contributi. Quindi mio padre con la pensione minima, mia madre casalinga e mio fratello disoccupato. Vederli soffrire mi faceva molto piangere quindi, dopo cinque anni, ho mollato tutto e a quel punto il sogno del giornalista o dell’avvocato è tramontato. Ma c’era una rivista, durata pochi numeri, che si chiamava Genius e lì avevo letto del mestiere del copywriter e ho pensato «Ah..fantastico, questo il mio mestiere! Si scrive, bisogna avere fantasia». Chiaramente, giovane e ingenuo com’ero, pensavo che fosse così semplice e così, a diciannove anni, avevo provato a chiamare tutte le agenzie più importanti, ma ovviamente nessuno mi rispondeva, tuttalpiù mi dicevano «Guardi,mi spiace, ma è giovane e non ha esperienza». Fino a quando non becco un’agenzia che faceva un concorso interno per quaranta persone, un copy senior e un copy junior, e a quel punto sono entrato come copy junior, sono stato scelto tra i quaranta. Ricordo che il mio primo stipendio fu di cinquecentomila lire e io ne pagavo trecentocinquanta di affitto e a quel punto ho lasciato gli zii e ho cominciato la mia vita a tutti gli effetti da solo o meglio, in condivisione con due ingegneri calabresi. Dopo un anno mio fratello passa da Milano (mandato secondo me in avanscoperta da mia mamma che gli avrà detto «Vai a vedere come vive Riccardo») e mi dice che c’è un suo amico che apre un locale, lo Zimba, e che hanno bisogno di una persona che scriva di tutto, dalle lettere agli assessori, ai testi per l’ufficio stampa, al curare una rivista di musica culturale afro-latina. Quindi mi sono proposto e son passato. Felicemente andavo a guadagnare da cinquecentomila lire a un milione, quindi potevo finalmente dare centomila lire a mio padre e mia madre. Lì ho cominciato il lavoro dell’attività editoriale, a gestire questa rivista. L’avevo completamente ribaltata! Ero una sorta di capo-redattore. Poi dopo un anno, siccome andava via l’ufficio stampa e siccome il giornale nel frattempo non c’era più, il proprietario mi disse «ti va di fare anche l’ufficio stampa?».
Così dopo tutti i libri di pubblicità digeriti ai tempi delle pubblicità, dopo tutti i libri sul giornalismo e l’attività editoriale, sono passato a tutti i libri di pubbliche relazioni e uffici stampa, giusto per avere un’infarinatura! Questo è un campo che ti mette a dura prova, anche se poi tutto parte da un talento che uno deve avere. A quel punto ho scoperto che forse era quella la mia strada, quella dell’ufficio stampa, e il mio primo lavoro è stato il tour di Ziggy Marley. Non che io fossi destinato alla musica, anche perché mi considero un conoscitore molto superficiale del mondo musicale. Non sono un giornalista alla Guaitamacchi, piuttosto che un esperto di cultura musicale. Diciamo che io mi ritengo un esperto di comunicazione. Mi occupo di comunicazione musicale, ma avrei potuto fare comunicazione di un prodotto d’altro tipo. Se invece che finire in un locale fossi finito in un’azienda di sanitari, magari avrei fatto quello. Io sono sempre stato un amante del reggae, ho sempre ascoltato la musica reggae in maniera più approfondita, ma superficialmente tutto il resto.
Bob Marley a San Siro?
Ero troppo piccolo, però c’erano i miei fratelli… Io vedevo la televisione, seguivo le cose che c’erano… Non che mi sentissi votato per lavorare nel settore musicale, ci sono arrivato per caso.
Per i profani, per far conoscere meglio e appassionare chi ci leggerà al tuo lavoro, cosa fa esattamente un’agenzia di comunicazione? Come si sviluppa l’attività?
Quanto cerca di andare incontro alle esigenze del cliente, ascoltandone e assecondandone le richieste? E quanto invece cerca di far valere le sue idee?
Essenzialmente l’ufficio stampa è una struttura preposta al rapporto con i media e oggi – da quando c’è stato l’avvento di internet- anche con i new-media, per conto del cliente che può essere un personaggio o un prodotto, quindi un disco, un libro, un film, un tour. L’ufficio stampa è uno dei ruoli più complicati e più difficili, perché ti devi ricordare di mille cose ed è un castello: se qualche mattoncino non va crolla tutto. Non puoi fare una conferenza stampa e dimenticarti di invitare l’ANSA, piuttosto che qualche giornalista importante. Non puoi organizzare delle interviste dimenticandoti di farle fare anche ad altri giornali concorrenti. In un comunicato stampa non puoi non rispondere alla famosa regola delle cinque W (who, where, what, when, why) piuttosto che, come dico io, quella delle quattro C: Chiaro, Corretto, Conciso e Completo, perché se no costringi il giornalista a doverti richiamare e quindi a perdere tempo. Ci sono tutta una serie di dettagli che sono molto importanti e non è così semplice, impari molto con l’esperienza. Alcuni, quelli con il talento, lo imparano subito e gli altri, con l’esperienza, possono magari farcela.
La funzione dell’ufficio stampa consiste quindi nel portare a conoscenza dei media l’esistenza e le caratteristiche di un prodotto o di un personaggio e fare in modo, ovviamente, di essere sui giornali, essere sui media nella giusta misura e nel modo giusto.
L’ufficio stampa lavora nel campo dell’informazione che è ben diversa dalla pubblicità dove uno acquista uno spazio e ci mette dentro quello che vuole. Il rapporto tra ufficio stampa e giornalisti è legato molto alla credibilità, quindi anche alla tua figura, alla tua persona. Quando chiami un giornalista lui si deve fidare di quello che tu gli stai dicendo, se no rischi di dare delle bufale e in questo lavoro se tu dai una bufala una volta forse ti viene consentito di darne una seconda, ma poi non lavori più.
Per quanto riguarda la seconda parte della tua domanda direi che ci si deve incontrare per forza. Non ci sono compartimenti stagni, intanto perché la conditio sine qua non è l’artista, la sua essenza e il prodotto. Quindi è fondamentale che tu, come ufficio stampa, faccia una cosa che sia in linea e in armonia con l’artista. Se hai Ligabue non lo comunichi come se fosse il maestro Muti e viceversa. Se hai Ligabue lo comunichi a una serie di testate, ad una serie di giornalisti. Se hai Muti lo comunichi ad altri. Poi, al di là degli interlocutori giusti, devi anche rispettare le caratteristiche dell’artista. Se è un artista che comunque non ha dimestichezza con le conferenze stampa e le interviste allora tu, come ufficio stampa, lo convinci a fare quella cosa, gliela fai digerire per il suo bene, perché tu lavori sempre per il bene del prodotto, del cliente, dell’artista, di chicchessia. Non lavori per te.
Ho avuto la fortuna di partecipare alla conferenza stampa di presentazione dell’album Mondovisione di Ligabue. Come ti ricordi quell’evento?
È stato un bel lavoro perché abbiamo dovuto evitare che uscissero certe domande sulla politica o sulla solita diatriba con Vasco Rossi e volevo che tutto fosse concentrato sul disco. È molto importante ‘sentire‘, un po’ come un dottore, che prima di fare una diagnosi ascolta il malato e gli chiede che cos’ha, cosa si sente ecc… Dell’artista bisogna saperne la storia, bisogna sentire che disco è, leggerne i testi, farsi un’idea. L’artista è la cosa più importante: se non ci fosse l’artista noi non ci saremmo. Noi siamo solo un valore aggiunto. L’ufficio stampa quanto incide? Incide, ma incide come incidono anche altre figure: il promoter radio, il promoter della televisione, chiunque faccia promozione, il manager piuttosto che l’organizzatore dei concerti. Tutti incidono e ciascuno porta il suo contributo. Ma io dico sempre che noi siamo solo un valore aggiunto. La conditio sine qua non è l’artista, il prodotto. Bisogna parlare con l’artista, stabilire una strategia di comunicazione non solo con lui, ma anche col manager, col discografico. Questo non fondamentale, è obbligatorio! Non puoi essere un cavallo sciolto che ti alzi la mattina e dici «faccio questo o quest’altro» senza che la cosa sia giustamente condivisa e in armonia con tutti gli altri. Perché poi è un puzzle, sono tutti tasselli che si devono combinare. Il lavoro dell’ufficio stampa, con quello della promozione radio, con quello della promozione tv, con quello del marketing sul prodotto, sul punto vendita, con quello dell’organizzazione dei concerti, col management. Quindi quando c’è una riunione ciascuno dice la sua e si combinano questi tasselli. Bisogna necessariamente parlare col cliente e confrontarsi ripetutamente con lui, con l’artista e con tutte le persone focali intorno a lui.
Nell’immaginario collettivo gli artisti sono notoriamente lunatici, imprevedibili, capricciosi ed egocentrici. Com’è rapportarsi quotidianamente con loro?
Lo confermo e non facile, ma dipende dall’artista. Rapportarsi con loro è come avere a che fare con i bambini: sono imprevedibili! Il musicista, l’artista è un po’ bambino e un po’ adulto. Sulla base dell’esperienza che uno ha, sa già dove va a parare. Sai già cosa potrebbe succedere, quindi sai cosa gli devi chiedere, perché fa parte del lavoro. Non che i clienti di un avvocato o i pazienti di un dottore siano diversi. Se vendi frutta e verdura magari arriva il cliente che chiede cinque arance, sei zucchine, paga e se ne va via, ma magari arriva quello che chiede la zucchina più lunga, più corta ecc.. Come se fossero degli artisti!
C’è sempre qualcuno tra gli artisti o tra le persone intorno agli artisti, che non capisce le dinamiche della comunicazione, la logica dei media e tu glielo spieghi. Se poi qualcuno ti fa arrivare a perder la pazienza, rientra nell’ordine delle cose.
C’è stato qualche artista col quale il rapporto lavorativo è stato particolarmente difficile e poco proficuo, per divergenze nella visione dell’attività promozionale?
Non ce n’è uno in particolare. Ce ne sono alcuni con cui magari ho avuto degli alti e bassi. Pino Daniele, ad esempio, è stato un artista con cui ho avuto dei bassi in un periodo, forse fine 2000, in cui non ci siamo capiti, ma poi ci sono stati tanti alti. Può capitare.
Posso dirti che l’artista che più mi ha deluso è l’artista raffigurato nel poster alle tue spalle (indica col dito un musicista molto noto n.d.r.), che è l’artista che io ho scoperto, lanciato, promosso e fatto diventare qualcuno, al quale ho fatto guadagnare milioni di euro e che senza di me non sarebbe assolutamente dov’è adesso. Senza di me sarebbe ancora ad Ascoli, dove stava andando con la valigia di cartone quando l’ho fermato e gli ho detto «Adesso lavoro io su di te, a tutto tondo come produttore, comunicatore ecc...». Quella stata la più grande delusione, perché vuol dire proprio mancare di gratitudine. E l’ingratitudine è una brutta bestia, che magari butti via, ma ti ricresce dentro e prima o poi esce.
Per quanto riguarda invece l’artista con cui mi sono trovato meglio, devo dire che mi sono trovato bene con tanti artisti, sia che non ho più, sia che sono ancora con me, per esempio Elisa. Con Jovanotti ho fatto otto anni, poi è chiaro che cito molto gli artisti che produco e quelli su cui investo. Diciamo che, se dovessi fare un nome, anzi due, uno è Pacifico, artista che ho prodotto e ho seguito sempre. Lui è praticamente mio fratello, non un cliente e basta. Se mi chiedi invece: dovessi smettere oggi, qual l’artista che salveresti, quello a cui hai voluto più bene e che ti ha dato più soddisfazioni da tutti i punti di vista? Beh, togliendo Pacifico, che non considero neanche un mio cliente, anche se è un grande artista, ma siamo amici, direi Ligabue. Io adoro smisuratamente Luciano. È davvero il paradigma della perfezione. Intanto perché è un essere umano, una persona di una umiltà, di un garbo, di un’intelligenza sopraffina e con i piedi per terra. Assolutamente uno di noi, uno come noi, uno come tutti. Lo sento molto vicino a me, perché è uno che è partito dal basso, si fatto un gran culo, ha fatto diversi mestieri, ha sofferto la fame e sa cos’è la sofferenza. Chi sa cos’è la sofferenza e chi sa cosa vuol dire vivere nelle difficoltà della vita – come nel suo caso e, in piccolo, nel mio caso – apprezza molto di più le cose quando vanno bene. Lui è uno che tra l’altro, quando ti chiama, ti chiede «sto disturbando?» È il mio cliente più importante e si preoccupa, quando mi chiama, di non disturbare.
Sia lui che sua moglie (tra l’altro adesso stiamo lavorando anche sul suo progetto) sono persone di grande classe. Proprio perchè sono persone – Luciano soprattutto – che non si sono fatte stravolgere la vita dai soldi. Vivono a Reggio Emilia, in una casa normale, quando invece, nella sua posizione, si sarebbe potuto permettere lo sfarzo più sfrenato possibile. Invece ha una bella casa, ma normale. Ma al di là di questo, il suo pensiero, il modo in cui si rapporta con gli altri, la sua curiosità, la sua cultura lo rendono una persona veramente intelligente e colta, una persona profonda. Io faccio il decennale il prossimo anno e sono strafelice: è l’artista con cui ho lavorato più a lungo, ma sono davvero contento perché uno così non l’ho mai incontrato. È davvero una persona speciale, speciale nei rapporti con le persone, ma soprattutto dentro. Una persona di un’assoluta onestà e umiltà in tutto. Ti racconto un aneddoto che non dimenticherò mai: la prima volta che feci un comunicato su di lui era il 7 febbraio 2005 e annunciavo che sarebbe entrato in studio per realizzare il disco Nome e Cognome (Warner Bros Records, 2005). Allora, facendo un po’ il riepilogo degli anni precedenti, avevo scritto nel comunicato che Giro D’Italia (Wea italiana, 2003) era stato dieci settimane in classifica (noi come ufficio stampa, a volte arrotondiamo un po’, enfatizziamo qualche dato numerico, qualche cifra, ecc.) e lui mi ha chiamato e mi ha detto: «no Riccardo, non sono state dieci, sono state nove e tu scrivi nove!» e io gli dissi: «ma Luciano, dieci è più tondo». E lui: «no, sono nove».
Un grandissimo. Luciano è veramente un grande.
C’è qualcuno di cui ti piacerebbe – o ti sarebbe piaciuto – curare la promozione?
De Gregori, anche se adesso lo sto toccando un po’ tangenzialmente perché ha lavorato con Ligabue.
Mi sarebbe piaciuto curare Fossati, ma si è ritirato prima che io lo potessi fare e comunque aveva un bravo ufficio stampa, non era giusto che se ne disfacesse, quindi in realtà va bene così.
Artisti stranieri? Mi sarebbe piaciuto Bob Marley ma… (ride).
Con Guccini (personaggio meraviglioso) e con Paolo Conte ho fatto delle cose, dei dischi e dei tour. Di altri non mi viene in mente nessuno, perché comunque, chi più chi meno, ho lavorato con tutti. Lo stesso Vasco Rossi: ho curato per dieci anni l’Heineken Jammin’ Festival e ho avuto a che fare tre volte con Vasco quando lui era l’headliner.
De Gregori e Fossati li ho toccati in maniera molto indiretta, nel senso che magari ero responsabile della comunicazione di qualche festival dove c’erano loro. Però personalmente non li ho mai curati. Due personaggi straordinari che a me tra l’altro piacciono molto. De Gregori per adesso no, ma chissà in futuro (nel frattempo da quando è stata realizzata l’intervista ad oggi, giorno di pubblicazione, De Gregori è entrato a far parte della scuderia di Riccardo Vitanza).
Tu che hai iniziato con la tua piccola agenzia, nel tuo monolocale, come hai visto cambiare la tua professione negli anni? Com’è cambiato il lavoro con l’avvento di internet e delle nuove tecnologie? E come sono cambiati i fruitori della musica? È stato difficile adattarsi alle esigenze delle nuove generazioni di ascoltatori?
Internet da una parte ha facilitato e dall’altra, ovviamente, ha complicato le cose. Ha facilitato nel modus operandi. Prima che ci fosse internet dovevi lavorare sulle diapositive, dovevi fare tanti viaggi per portare le foto nelle portinerie dei giornalisti. Non esistevano le mail. Internet ha abbreviato i tempi, ma dall’altra parte ha complicato il lavoro perché ci sono nuove testate, nuovi utenti. C’è stata una moltiplicazione dei segmenti operativi, con tutta una serie di rischi perché chiaramente prima avevi le agenzie di stampa che dovevano anticipare i quotidiani che a loro volta venivano preceduti la sera dal telegiornale. Adesso, purtroppo o per fortuna – a seconda dei punti di vista – con internet è tutto in tempo reale e nel momento in cui dici una cosa è già tutto in rete. A volte, addirittura, la notizia in internet arriva prima che tu possa fare il comunicato stampa.
Questa non vuole essere una sviolinata o un’adulazione a tutti i costi, ma il fatto unanimemente riconosciuto che la tua agenzia, e quindi tu, siate i numeri uno in questo campo, come ti fa sentire?
Come ti fa sentire essere soprannominato il ‘Re della comunicazione‘? Come si diventa il numero uno?
Siamo tra le agenzie più importanti nel settore comunicazione, spettacolo e musica. In particolare siamo in tre, ci dividiamo una torta con alcuni free-lance.
A me fa piacere, indipendentemente dal fatto di essere considerato il numero uno, anche perché non penso di esserlo. Penso che siamo veramente in pochi i più bravi.
Mi piacerebbe essere considerato il numero uno e penso di esserlo – e sono l’unico e lo dico proprio con arroganza (ride) e senza falsa modestia – nella formazione del personale. Lì sono veramente il numero uno. Nessuno ha formato negli anni il personale come l’ho formato io ed la cosa di cui sono più orgoglioso. Nella comunicazione musicale siamo bravi e magari più talentuosi rispetto ad altri, però ce ne sono comunque di validi. Ma io mi sento veramente il numero uno soprattutto nell’aver sempre formato dei team pazzeschi che hanno lavorato da me e di aver formato persone che son diventate professionisti della comunicazione e che oggi sono titolari di uffici stampa, responsabili della comunicazione, capo ufficio stampa, capo promozione, chi lavora in major, in case editrici ecc… Dove sei cresciuto? A scuola di Vitanza. Io lo dico sempre ad ogni persona che arriva qui «per parecchio tempo mi darai del figlio di puttana, ma poi arriverà il giorno che mi dirai grazie». Però oggi, quando qualcuno mi ferma e mi dice: «grazie a te, sei stato un maestro» ecco quella è la cosa che più mi fa gonfiare il petto, mi inorgoglisce. Proprio l’aver formato delle persone. È una delle cose che più adoro: formare il personale, creare la squadra.
Consiglieresti ad un ragazzo di intraprendere una carriera in questo ambito? Ti sentiresti di invogliarlo o incitarlo? E se si, con quali consigli? Oppure lo scoraggeresti?
So che tieni un master in comunicazione e media…
Si, da undici anni sono docente del meraviglioso master in comunicazione musicale, inventato dal professor Gianni Sibilla che lavora per Rockol, professore alla Cattolica che ha avuto davvero un grande merito. Io devo dire veramente grazie a questo master, perché tante persone che poi ho formato vengono da qui. In questo momento in ufficio ho otto persone che vengono da questo master. E i miei migliori collaboratori – alcuni che non ho più e altri che sono presenti adesso in ufficio – vengono dal master. Li pesco, li prendo e li cresco io.
Quindi ti inorgoglisce il fatto di formare nuove leve?
Tanto, tantissimo. Un tempo sono stato giovane anch’io, il classico giovane che entrava in una cabina del telefono, metteva il gettone, apriva le pagine gialle e alla voce pubblicità puntava l’indice, chiamava, diceva «buongiorno avete bisogno»? Quindi avevo bisogno che qualcuno credesse in me, che qualcuno mi volesse lanciare. Ecco, io sono sempre attento a un giovane e dove posso cerco di aiutarlo. Se lo posso mettere qua dentro e crescerlo, bene, se non ce la faccio son prodigo di consigli. Perché ho sofferto tanto da giovane e so quali sono le aspirazioni di uno che dice «cavolo, non ho esperienza, però sento di farcela, ho studiato per questo. Se solo qualcuno mi desse un’opportunità».
Ecco, io cerco di essere in quel momento colui che cerca di darti l’opportunità, che tu sia una cantante, un cantante, un artista, che tu sia uno che vuol fare l’ufficio stampa o altro. Quindi, in questo momento, anche se i tempi sono quelli che sono e le difficoltà sono più che evidenti, io dico sempre ai giovani ‘provateci, abbiate il coraggio delle vostre scelte”
Io dico sempre che bisogna avere il coraggio dell’incoscienza o l’incoscienza del coraggio. Bisogna provarci, non demordere, non accettare compromessi, andare sempre dritti, perché, prima o poi, uno bravo magari ci mette più tempo rispetto a chi fa il furbacchione o la furbacchiona, però ci arriva. Se uno è bravo ci arriva e ha più soddisfazione. Certo, i tempi son difficili, però è chiaro che se uno ci prova magari dice «io entro come stagista, non sto ad avere delle pretese, intanto prendo qualcosa» (peraltro i miei stagisti sono sempre pagati con un rimborso spese. Non faccio mai lavorare a titolo gratuito) «e poi mi metto in evidenza».
Ci sono invece quelli che arrivano – mi è successo in tanti colloqui – provenienti da diverse facoltà universitarie, che manco chiedono cosa andrei a fare bensì quanto mi dai? Cosa prendo? Ma posso uscire alle sette? Io devo fare sempre l’happy hour con il mio ragazzo, ma scusa, tu vieni da una facoltà di scienze della comunicazione e non sai cos’è un comunicato stampa? Ma qui entriamo in altre dinamiche e in altre polemiche…
Per quei giovani che hanno forza di volontà, che sono capaci, che hanno voglia di farcela, che sono determinati e che vanno avanti con umiltà e con onestà, io dico provateci e troverete sempre un Riccardo Vitanza ad aprirvi la porta perché quando vedo queste persone mi sciolgo come se fossi un panetto di burro.
Chi è Edoardo Lanza, patron di Words & Music, vero punto di riferimento della musica… e dintorni?
Come ti sei sentito quando hai scoperto che il giornalista e scrittore Ezio Guaitamacchi, per il personaggio principale del suo romanzo Psycho Killer (Arcana, 2013), si ispirato a te (per non dire si impossessato della tua identità sotto – neanche troppo – mentite spoglie)?
Il buon Ezio, lo dico qui, ma l’ho detto anche a lui, ci ha un po’ ricamato perché primo: non sono interista (non so se mi ha dato dell’interista o del milanista, adesso non ricordo) e secondo: non sono uno che ha mai abusato, a livello di sesso o di fidanzamento, delle mie collaboratrici. Diciamo che le donne mi piacciono, avrò fatto qualche danno, ma sempre all’esterno dell’agenzia.
Comunque ti avrà inorgoglito il fatto che ti abbia preso come esempio per il personaggio principale
Tantissimo
Mi aveva anticipato che mi avrebbe inserito. Io sono stato contentissimo. Tra l’altro è un bellissimo libro, io l’ho letto veramente e poi Ezio è bravo, proprio una brava persona. Tra i giornalisti ce ne sono alcuni che, una volta che non fai più questo lavoro, fanno scendere su di te l’oblio totale. Ce ne sono altri invece che sono e saranno sempre degli amici.
Guaitamacchi è un pozzo di scienza dal punto di vista musicale, però ha sempre scelto una sua strada, il periodico, l’Hi Folks, piuttosto che Jam o i libri. È che purtroppo nei quotidiani nazionali la critica musicale non esiste più e uno come Guaitamacchi sarebbe davvero sprecato. E anche altri che sono dei critici bravissimi, come Enzo Gentile, sono costretti a fare le loro intervistine del cazzo.
Ezio, carinamente, mi ha messo nel libro. L’alter-ego mi piace, a parte qualche dettaglio (ride). Quindi va bene così.
Poi muoio subito, ma aleggio per tutto il resto del libro.
Come mi sono sentito? Mi fa molto piacere, infatti spero che faccia un nuovo libro dove resuscitiamo tutti, perché – faccio un pubblico appello – vorrei di nuovo essere in uno dei prossimi, se non nel prossimo, libro di Ezio. Basta che non mi dia dell’interista e del maniaco con le collaboratrici!
Qual è secondo te l’altra faccia della musica?
Purtroppo l’altra faccia della musica è quella dell’ipocrisia e di tutte le conseguenze negative che l’ipocrisia si porta dietro, i falsi rapporti, l’invidia, la gelosia, i rapporti contaminati… Nel nostro ambiente ce n’è molta: gente dedita alla piaggeria solo perché sei questo o quello, ma poi se non sei più utile ti buttano nel cestino.
Io sono un amante del Buongiorno di Gramellini su La Stampa e quello di oggi era bellissimo. Raccontava di questo telecronista che dopo quarant’anni di carriera, nel dar la linea – rendendosi conto che era la sua ultima partita e che il giorno dopo sarebbe andato in pensione – si messo a piangere, gli sono uscite le lacrime. E dall’altra parte invece di dire: «facciamo un applauso, dopo quarant’anni di grande lavoro, auguri, grazie, sei stato veramente meraviglioso per noi…» l’altro telecronista dice «bene, grazie, a risentirci presto… diamo la linea a Latina». Queste cose a me fanno paura, queste cose così asettiche, questa mancanza di sentimento, questa mancanza di bene, questa mancanza di cura dei rapporti e questa mancanza di memoria. L’altra faccia della musica è tutto questo, quella parte oscura che poi c’è in tutti ovviamente, anche in tutti i lavori ed la parte più brutta, quella che non corrisponde alla parte che c’è in superficie. Se domani non fossi più l’ufficio stampa di Ligabue, non curassi questi artisti, non avessi questi clienti o altro, di tutti i giornalisti con cui ho rapporti forse cinque continuerebbero a sentirmi e ad aver a che fare con me. Degli artisti altrettanti e dei colleghi di lavoro forse altrettanti. Dopodiché gli altri direbbero «Chi sei? Ahh Vitanza…»
Quando sali le scale e incontri qualcuno sii gentile, perché potresti rincontrarlo quando le scendi.
Bellissima. Detto in altro modo ‘la vita fatta a scale, c’è chi scende e c’è chi sale‘.
In quel momento puoi trovarti sopra o sotto. Come quando uno dà del terrone a uno del sud. Peccato che poi tu sei comunque a sud di qualcuno più a nord. E poi il mondo gira e girando quelli che stanno sotto di te sono sopra di te in un certo momento della giornata. L’altra faccia della musica è proprio questa, che poi se vogliamo è l’altra faccia di qualsiasi altra professione. Pensa all’ipocrisia che c’è in una corsia di ospedale o in un ufficio amministrativo di un ministero o in una fabbrica.
Qua sembra che sia tutto bello..in fin dei conti noi non dobbiamo mica tirarcela.
Vendiamo, facciamo, smerciamo, gestiamo canzonette non salviamo mica vite umane. Quindi dovremmo essere tutti felici e contenti. Io odio gli artisti che se la tirano e quanti ce ne sono. Ma ti rendi conto che tu, artista che te la tiri, magari vieni da un paesino di provincia e se sei dove sei devi ringraziare Dio e ogni giorno dovresti ringraziare Dio e ringraziare chi ti ha dato l’opportunità di essere li e di fare tutti quei soldi, perché c’è gente che in miniera non arriva neanche a un milionesimo di quello che guadagni tu e non arriva alla metà della vita che fai tu.
Quindi questa è l’altra faccia della musica, la mancanza di sincerità, la mancanza di memoria, la mancanza di queste cose. Il non riconoscere che comunque fai un bel mestiere, fai una bella professione, fai una bella vita, nonostante i sacrifici, le incazzature e tutto il resto. Come diceva qualcuno nel giornalismo: sempre meglio che lavorare. Quello mi dispiace. Ecco perché ti dico che adoro Ligabue. Lui cosciente di quello che ha, è sempre contento e si mette sempre in discussione. Non da per scontato che siccome è Ligabue allora lo stadio è pieno e siccome Ligabue vende milioni di dischi. Lui dice ogni giorno può non essere più quello dietro. E questo è tipico di chi sta ancorato con i piedi per terra e di chi arriva dal basso. Però ci sono quelli che arrivano dal basso e se lo dimenticano ed questo che mi da fastidio, ma è proprio una questione di intelligenza. L’altra faccia della musica è quella che noi che siamo nell’ambiente purtroppo vediamo, ma che non vorremmo mai vedere, perché è la faccia negativa, quella che in realtà non giustifichi nemmeno. Uno che se la tira facendo questo lavoro non lo giustifichi, perché in fin dei conti non è riconoscente nei confronti di un pubblico che ti compra i dischi e che ti compra i biglietti dei concerti. Senza quello tu non sei nessuno.
ALEX PIERRO
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‘L’altra Faccia della Musica‘ è un appuntamento nel quale incontriamo alcuni tra gli esponenti più importanti del panorama musicale italiano che, con il loro lavoro spesso dietro le quinte, ma non per questo secondario, hanno contribuito – e continuano a contribuire – a rendere grande la musica italiana.
Una carrellata su tutte quelle figure che si occupano di musica: a partire dal progetto musicale, procedendo in tutte le fasi di strutturazione, divulgazione, fruizione e critica, siano esse produttori, giornalisti, manager, avvocati e, perché no, artisti.
Una sorta di radiografia su tutti i mestieri che gravitano intorno all’evanescente mondo della musica, per dare una visione più ampia su cosa c’è dietro a un successo e a una carriera discografica.
Insomma, proveremo a cercare di farci svelare qual è ‘L’altra Faccia della Musica‘.
PER SEGNALAZIONI E CONTATTI: ALEX PIERRO – pierro@hotmail.it – 347.9703822