Patrizio Visco, avvocato considerato uno dei maggiori esperti di diritto d’autore in ambito musicale, copyright e proprietà intellettuale. Autore del libro Il Diritto della musica (Hoepli, 2009). Questo è quello conosciuto ai più ma chi è Patrizio Visco al di fuori del suo studio e dei suoi studi?
In realtà ho pubblicato altri libri precedentemente con le edizioni Musica e Dischi, dagli anni ’90/’92 fino al 2009 quando Hoepli ha pubblicato questo. Peraltro adesso, con un editore internazionale – di cui non faccio il nome – ne sto facendo un’altra versione, non proprio ampliata, perché quella ampliata è questa, ma il classico libro per iniziati, non un libro di divulgazione vera e propria, ma un testo ad uso di chi, in qualche modo, ne capisce. Io poi sono un giornalista pubblicista dal 1984. Ho smesso di scrivere, ma mi sono sempre interessato di musica, che è la mia prima passione. Ho fatto il conservatorio da ragazzo, ho interrotto a undici anni. Ho fatto i primi cinque anni di pianoforte senza mai toccare un pianoforte: era tutto teoria e solfeggio. Poi mi sono messo a studiare chitarra e ho suonato fino ai diciannove anni, nel 1974, dopodiché ho iniziato a studiare e a lavorare in maniera intensiva. Successivamente, non pago, mi sono iscritto al D.A.M.S. (poco dopo, nei primi anni ’80, sono diventato procuratore), e non l’ho finito per un esame e la tesi (la tesina l’avevo già fatta), perché ero travolto dal lavoro. Contemporaneamente scrivevo per alcune riviste, ho scritto anche dei saggi per pubblicazioni che sono andate in edicola come box, cofanetti e via dicendo. Ho fatto il produttore musicale per l’etichetta New Sound Planet, emanazione della NoWo, che nei primi anni ’80 ha importato il formato compact disc in Europa (dalla giapponese Nippon Columbia Denon). Ho seguito svariate produzioni da un punto di vista anche artistico con collaboratori, colleghi, amici e seguivo tre o quattro label di musica orientate dal jazz classico (broadcasting fuori diritti degli anni d’oro) alla fusion/new age sino alla contemporary music.
Suonicchio ogni tanto, purtroppo non più con continuità. Ho una collezione di chitarre acustiche di cui vado molto fiero. Inoltre ho, non dico una collezione perché può essere incompleta, ma dal punto di vista quantitativo e qualitativo penso di avere una discografia abbastanza estesa: circa cinquantamila tra CD e LP, penso duemila libri musicali di vario tipo, dalla letteratura dei vari periodi storici con i vari collegamenti musicali, a biografie, a studi di tecnica ecc. ecc.
Questa è un po’ la combinazione fortunata – più che fortuita – perché molto voluta, che mi ha portato poi a combinare diritto e musica.
La chitarra a cui più affezionato?
Jean Claude Larrivee del ’79, una 010 che era di Pino Daniele, con il quale ho fatto una permuta nei primi anni ’80 dal liutaio Tomassone di Bologna.
Invece il disco a cui tiene di più?
Sono almeno tre: Bitches Brew di Miles Davis (Columbia Records, 1969), Atom Heart Mother (Harvest Records/ EMI, 1970) dei Pink Floyd, per la visione lisergica, la miscela sonora e per il live cui ho assistito nel ’71 ed If I Could Only Remember my Name (Atlantic Records, 1971) di David Crosby (a mio parere uno dei songwriter più profondi, estrosi e poliedrici del ventesimo secolo).
Sono tre act in ambiti diversi, ma parimenti geniali come svariati album fonografici del ventennio che va dai primi sessanta alla fine dei settanta.
Poi è difficilissimo da dire per un ‘onnivoro completista’, ma le mie affezioni storiche sono il Progressive europeo e la West Coast statunitense: mondi apparentemente distanti ma sensibilmente vicini.
Crede che, a fronte delle nuove tecnologie e dei nuovi mezzi di divulgazione della musica, la legislazione italiana sia stata al passo con la velocità dei cambiamenti?
Credo di no, ma ritengo sia una questione che affligge il ‘pachiderma Italia’. L’Italia è arretrata su vari fronti ed è eccellenza innovativa in altri settori. Il sistema legislativo ed il metodo non sono affatto agili e non riescono a fronteggiare i nuovi fenomeni, ma ormai, nella musica è difficile essere al passo con i tempi da quando esiste la rete accessibile a tutti. Peraltro c’è anche un motivo alla base, anzi una scelta politica a monte: o reprimere le pratiche illegali anche in concreto (ma per molti sarebbe ‘anti-democratico’) o lasciare in qualche modo vivacchiare la massa (il bene immateriale va fruito collettivamente…, è patrimonio di tutti …e vi si può attingere, con qualche limitazione…) elaborando fanta-discipline o fanta-tutele – fanta nel senso che sono in qualche modo approssimative ed interpretabili ad usum…- ma questo non è sufficiente per poter reggere un comparto culturale ed industriale come quello musicale. Esso non si regge più con le briciole di You Tube, di Spotify o Deezer.
Il settore si era sviluppato con la vendita del supporto fisico, quindi con la vendita del fonogramma materiale, visibile, apprensibile, godibile in toto…
Indi, dagli anni ’80, prima l’ingresso del compact disc, poi del masterizzatore e quindi del file digitale hanno gradualmente portato alla c.d. “dematerializzazione”, favorendo la fuga dalle regole ed anche la volatilizzazione dei diritti, per cui non si riescono di fatto più a gestire.
La pirateria in senso lato viene contrastata severamente in Francia (HADOPI) e in Gran Bretagna, negli Stati Uniti è reato federale e le normative prevedono un corredo sanzionatorio che include la reclusione.
E parliamo di mercati ben più floridi, come pure di diverse culture e mentalità, educazione e pragmatismo.
Oggi i giovani non hanno alcuno strumento o medium per farsi conoscere; lo scrive anche David Byrne nel suo ultimo libro (How Music Works, McSweeney’s, 2012, tradotto in italiano Come funziona la musica, Bompiani Overlook, 2013), lo affermano anche Pete Townshend e Peter Gabriel, insomma lo sostengono tutti gli “Artisti Illuminati”, coloro che hanno anche una certa esperienza di mercato: essi sono contrari ai recenti trend di sfruttamento, ma non allo sviluppo. Sono avversi al declino del settore, soprattutto pensando agli esordienti o beginners, in quanto loro hanno avuto all’epoca determinate possibilità ed hanno raccolto consensi, successo e money.
Preciso che non si tratta di una problematica solo italiana, ma da noi vi è anche un sottodimensionamento della polizia postale, delle Authority e di tutti gli enti e gli organi di vigilanza e controllo. Non si riesce ad arginare il fenomeno…
C’è una rete, certo, ma è una rete per …squali, non per gianchetti… (nome ligure delle larve di acciughe, bianchetti, pesciolini piccolissimi n.d.r.). La vera rete dovrebbe avere maglie fittissime, attraverso le quali non puoi passare; invece vi imperversano enormi esseri pleistocenici…
Crede che la legge speciale n. 633 del 22 aprile 1941 sia ancora attuale?
Direi che, considerato l’anno di emanazione, poteva considerarsi a ragione una delle migliori al mondo, poiché nella sua apparente ingenuità, prevedeva sostanzialmente tutto. E’ adattabile a molte fattispecie contemporanee.
Certo, non alla fenomenologia variegata dei nostri tempi, però dal punto di vista dei principi credo che abbia una struttura e un’impostazione ferree. E, come sempre accade da noi, le successive modificazioni e le integrazioni apportate dal Legislatore, invece di chiarire, hanno complicato. Quindi sembra che essa sia vetusta quella, mentre in realtà non si è più in grado di legiferare come allora.
C’è qualche legge che secondo lei manca in Italia? Avrebbe qualche idea per arginare tutti questi fenomeni?
Penso che si debbano stabilire principalmente regole e regolamenti – specie comportamentali – ed istituire un regime di controllo e di pene più rigorose per le violazioni. Inoltre, l’intera area dell’entertainment vive nel dilemma della gestione dei diritti su base collettiva o individuale.
Solo che quella collettiva diviene: forfetizziamo e spartiamo a seconda dell’importanza, mentre quella individuale significa che ciascuno tutela il proprio status. Certamente è più comodo favorire gli enti di collecting, piuttosto che rappresentare ogni singolo titolare di diritti.
Tuttavia non credo manchino leggi specifiche: andrebbero meglio pensate, sicuramente, e redatte in maniera chiara, avulsa dalla idea di privilegiare questo o quel gruppo di interessi o, peggio, non scontentare nessuno.
Vanno anche adottati, ad esempio, lemmi convenzionali che siano gli stessi se si parla della stessa materia; il codice linguistico in materie così specialistiche serve proprio per evitare malintesi e confusione, ma parrebbe l’opposto.
Se uso il termine fonogramma userò sempre fonogramma, non posso chiamarlo alternativamente apparecchio meccanico o supporto fonografico o solo supporto, perché si lascia spazio all’interpretazione. Questo è tipico di tutte le leggi italiane: si discute su qualsiasi cosa perché non è chiara. Invece la Common Law, la disciplina anglosassone, è molto precisa, le definizioni sono quelle. O usi quelle o non si capisce «What are you doing?» (ride). Quindi, consigliare una legge? No. Probabilmente bisognerebbe riscriverla da capo, impedendo che si stratifichino concetti e principi regolatori favorendo ‘giochi di parole’ od esegesi varie. Poi gli argomenti sono talmente tanti perché è vero che è una materia specialistica, ma è vero anche che ha un’espansione su tutto: io leggo Sony e già mi vengono in mente repertori, cataloghi, etichette, marchi, brevetti e mille altre cose…
Secondo me questa è una materia trascurata, senza neppure la dignità di una cattedra universitaria: esiste il Diritto Industriale, che è altro, in cui qualcuno blatera quattro pensieri sul diritto d’autore. Molti lo definiscono copyright, che è del tutto fuorviante ma lo usano tutti: S.I.A.E., le major, tutti usano il termine copyright, che in realtà è parte un altro sistema! Nel mio libro un paragrafo è dedicato alla distinzione tra diritto d’autore e copyright.
In tutto questo, anche la S.I.A.E. ha delle pecche?
La S.I.A.E. ha sicuramente delle pecche. Ricordiamoci che è un ente pubblico economico che agisce su base collettiva per interessi individuali.
Quindi ha il ‘difetto’ della ministerialità italiana e l’handicap di essere un’enorme macchina targata 1882. Inoltre non è facile conoscere i meccanismi di gestione effettivamente – tra incassi e ripartizioni – e la mole di proventi amministrata da S.I.A.E. è tra le più cospicue al mondo.
Pur operando in uno ‘stato proconsolare’, si giova di una rete ispettiva capillare, con tutto ciò che comporta: presenza diffusa sul territorio con una fitta schiera di dipendenti, agenti, commissionari, ecc.
Però non è facile sostituire S.I.A.E. nella conoscenza del servizio, anche per la sua storica evoluzione.
Diciamo che anche S.I.A.E. patisce l’italianità, perché da un certo punto di vista è avanzatissima, ma dall’altro è parte di quel lento e primordiale burosauro che purtroppo affligge l’intera nostra nazione.
Prima ha citato Inghilterra, Gran Bretagna e America. Secondo lei, sotto questo aspetto, qual è il paese più avanzato, il paese più in pista su questi argomenti, quello che riesce meglio a gestire e a interpretare questi cambiamenti e queste evoluzioni?
Di base sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma anche i paese nordici, i paesi un po’ più piccoli che hanno una cultura di base che non sia neo-latina, alla quale sfugge l’idea della proprietà immateriale.
Questa cognizione è difficile da apprendere, basandosi su una sorta di ragionamento binario, peculiare in questa materia: l’Opus si compone di una parte immateriale e di un’altra materiale, fisica. Mi rifaccio alla distinzione scolastica tra Corpus Mysticum, in questo caso l’opera, e Corpus Mechanicum, ciò che la incorpora (la registrazione, ad esempio). Quindi questo ragionamento porta spesso a far confusione, a chiedere perché per la diffusione di una canzone si debba pagare S.I.A.E. e S.C.F., allora pago due volte? Perché per la sincronizzazione devo pagare sia l’editore per l’opera sia il produttore per la registrazione? E’ questo il busillis di cui parlavo prima…
Si riferisce a ciò che si venuto a creare quando sono mancati i supporti fisici, il Corpus Mechanicum?
Si, ma questo aspetto è sempre stato confuso, perché è la base, la chiave di accesso al mondo creativo, la prima domanda.
Se chiedi la distinzione tra Corpus Mysticum e Corpus Mechanicum a un universitario e non risponde, come puoi procedere l’interrogazione? Per fare un esempio: cosa devi fare per poter sincronizzare questa canzone in uno spot pubblicitario? Altro quesito che presuppone la cogestione di due piani paralleli.
Perché l’editore è un soggetto separato, che ha probabilmente uno o più autori cessionari (che magari a loro volta hanno anche più editori) che gestiscono l’opera. Quando quest’ultima viene registrata c’è anche la presenza di un produttore che ha investito per la registrazione con artisti, interpreti ed esecutori, studi di registrazione, ingegneri del suono, fonici, assistenti, turnisti, coristi…
Quindi vari soggetti che si dividono in due rami distinti, che poi vanno a confluire verso lo stesso target per linee convergenti.
Come nasce l’idea della pubblicazione del testo Il Diritto della Musica? A chi vuole rivolgersi?
Di fatto vuole rivolgersi un po’ a tutti, anche se mi rendo conto che, essendo molto tecnico ed approfondito su temi per lo più non conosciuti, non sia per tutti. Il mio sforzo adesso sarà quello di rendere il più possibile comprensibile la materia per renderla appetibile a più persone. Il libro è uno strumento culturale con funzione sociale: deve raggiungere più persone possibili ed interessarle, sia esso un e-book od un libro cartaceo tradizionale.
Quindi bisogna scegliere: questo ha un taglio più accademico o per iniziati non proprio divulgativo, viene usato proprio per motivi di studio, in pochi l’hanno veramente letto!
E’ interessante, spero – ma non dovrei sostenerlo io …-, ed è forse l’unico che sviluppa certi temi.
In sintesi, non è un testo pratico-operativo od un manuale.
Una piccola curiosità: secondo lei il discorso dell’IVA nella discografia potrebbe favorire la divulgazione della musica?
In uno Stato che arranca in questo modo, discutere su un volume tanto esiguo di IVA dovrebbe essere facilissimo: a loro serve comunque, ma favorirebbe sicuramente la vendita. Il 22% – quasi 1/4 in più che grava sull’acquirente consumatore – è tantissimo con la capacità di acquisto attuale, quindi rappresenta sicuramente un freno all’acquisto.
Però devo aggiungere che l’Europa è abbastanza allineata e sui supporti l’IVA ha una incidenza elevata. La differenza è con il libro, quindi l’editoria libraria è agevolata da un’IVA al 4% (la più bassa d’Europa con la Spagna), mentre quella sul supporto è al 22%. La parificazione del supporto fonografico al libro non è mai stata attuata. Avevo seguito tutta questa parte con la Presidenza del Consiglio dei Ministri già oltre 20 anni fa, ma l’idea di dare pari dignità a questi due supporti non è mai passata in concreto.
Secondo lei perché? C’è qualche volontà o non volontà dietro?
Non si è mai capito di preciso. L’arroccamento avvenne dichiarando ad un certo punto che, se non si fosse modificata una direttiva comunitaria (sulle imposte dei consumi) del 1977, che limitava le aliquote, saremmo stati sanzionati dall’Unione Europea.
E la storia finì così.
Nessuno si è realmente battuto per questa disparità di trattamento, neppure in sede comunitaria.
Poi l’argomento è stato ripreso con vari interventi, poco convinti direi, ma attualmente non c’è nessuno che appoggi questa soluzione. Parliamo di un gettito di imposta su poche centinaia di milioni, ma tra qualche decina di milioni e un carico di consumatori che usano la musica gratis o illegalmente per 4 millesimi di euro, la scelta è presto fatta…, perché mancano educazione e cultura.
È pur vero che la ‘dematerializzazione’ ha dimezzato il mercato in Gran Bretagna, ma altrettanto l’altro 50% è legale. Quindi si è riformato il 100%, che magari come valore assoluto si è un po’ ridotto, sicché il mercato è quasi inalterato.
Le collaborazioni con i grandi artisti italiani che si rivolgono a lei le danno la possibilità di capire anche le loro esigenze e i loro pensieri riguardo a tutti questi temi? Ovvero il fatto che i brani vengano scaricati illegalmente ecc.. Loro ne soffrono e percepiscono questa cosa?
Si, loro percepiscono una serie di abusi, soprattutto quando vengono lambiti gli elementi della propria personalità e della propria sfera umana privata. Vivono tutta la disciplina a monte con una certa noia esistenziale; vedono la legalità per lo più incentrata sulla persona. Diciamo che è più la lesione dei diritti morali, l’utilizzazione impropria del nome, l’utilizzazione indebita dell’immagine, supposti plagi, tutto ciò che ha si risvolti patrimoniali, ma viola di base la sfera morale dell’artista, ciò di cui sono abbastanza consci.
Del resto alcuni, i più attenti, vedono contrarsi sempre di più il mercato e sono seriamente preoccupati. Gli altri continuano abbastanza imperterriti a richiedere sempre le stesse cose a tutti: alla casa discografica, ai collaboratori, al pubblico, all’acquirente e al fruitore, come se nulla fosse cambiato. Quindi non c’è una piena coscienza, perché piena coscienza vuol dire non solo intuire, ma anche approfondire.
Poi ci sono alcuni, di un certo livello, che vogliono sapere e leggono, si informano, studiano… Non tecnicamente, a livello informativo e formativo.
Parlando di plagio, quanto è difficile riuscire a dimostrarlo in una causa?
Oggi è difficilissimo, nel senso che chi agisce sulla base di una supposta lesione di una propria opera difficilmente la spunta, salvo il caso in cui sia un’opera estremamente famosa ed estremamente copiata..
Praticamente la procedura che è partita proprio dal caso di Michael Jackson e Al Bano col brano I cigni di Balaka era proprio il richiamo ai precedenti. Vuol dire che un’opera, per essere tutelata, deve essere nuova, originale e creativa. Se ci sono precedenti, questa non è più nuova, originale e creativa, quindi anche quella successiva, che avrebbe plagiato quella precedente, a sua volta non è originale. Pertanto nella non originalità non esiste plagio. E peraltro non esiste neanche quando viene comparato con opere di pubblico dominio, quindi se c’è Haydn, piuttosto che Scarlatti, che al clavicembalo ha suonato una melodia, quello basta per dire a Sam Cooke che non era originale neanche la sua, tanto per fare un esempio.
Esiste la possibilità che il plagio non sia voluto?
Esiste il plagio inconsapevole, che è comunque plagio, ma non prevede il requisito del dolo. Nel processo italiano l’assetto probatorio è assai complesso e riuscire a dimostrare il dolo è veramente arduo.
Si torna al solito discorso..
Ma dappertutto, si veda anche il caso Pistorius… È la volontà della giuria che, sovrana, stabilisce il grado di colpevolezza. Si tratta a volte di assolvere e a volte di condannare in maniera impopolare, pur essendo popolare…, o viceversa. Anche li è una scelta politica: il colore della pelle, la provenienza, la malformazione, il diversamente abile, il pentimento…i sensi di colpa insomma.
Per concludere, secondo lei, qual è l’altra faccia della musica?
La domanda è interessante, ma involge troppi risvolti.
Io credo si possa fare un paragone pertinente con il surf.
Io mi ritengo (modestamente) surfer (anche se non ho fatto surf come disciplina sportiva o ludica) perché è una inclinazione, uno stato d’animo perenne, una idea filosofica, quasi un’ideologia mistica, come lo Zen o l’amore smisurato per la musica (the dark side of the music…).
Credo che la vita imponga di surfare, ti insegna a passare indenne attraverso i flutti come i surf riders; giorno dopo giorno è una sfida ed una prova come saper cavalcare le onde, immaginarie, per le quali non c’è bisogno di calcare realmente una tavola.
Il motto dei surfer è “Adopt, adapt, improve”…
Così secondo me non c’è bisogno di suonare se sei un musicista che vibra. Se tu vibri sei già un musicista, c’è la musica in te. Quella è la musicalità che abbiamo tutti, ma che pochissimi sviluppano. Pochissimi vogliono studiare e inoltre oggi si usano metodi che allontanano dallo studio. Io ho avuto la fortuna di studiare con Maestri che mi hanno fatto capire la portata e la valenza della matematica. Pare un’assurdità, ma se pensiamo a Pitagora o a Guido d’Arezzo e a tantissimi altri, tutti provenivano da scuole o accademie matematiche.
Capire la matematica conferisce maggiore razionalità alla mente: comprendi la scomposizione del ritmo, la metrica ecc. ecc. Secondo me c’è un parallelismo tra tutto questo, però è necessario che persone mature, che l’hanno capito ed esperito, te lo spieghino. E’ difficile arrivarci da soli, lo vedo quando parlo con i giovani. Per loro la musica è un qualcosa di comodo, portatile, tascabile, rilassante ed evasivo, indipendentemente dal fatto che siano file compressi, talvolta orribili, di musica usa e getta. Ma questo è un problema sociologico che si pongono solo coloro che hanno sensibilità e maturità, i surfer appunto…
Il che non significa che non si possa ascoltare musica senza studiare, ma vuol dire che comprendi tutte queste problematiche solo affrontandole con lo studio ed il surf…
Cowabunga!
ALEX PIERRO
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‘L’altra Faccia della Musica‘ è un appuntamento nel quale incontriamo alcuni tra gli esponenti più importanti del panorama musicale italiano che, con il loro lavoro spesso dietro le quinte, ma non per questo secondario, hanno contribuito – e continuano a contribuire – a rendere grande la musica italiana.
Una carrellata su tutte quelle figure che si occupano di musica: a partire dal progetto musicale, procedendo in tutte le fasi di strutturazione, divulgazione, fruizione e critica, siano esse produttori, giornalisti, manager, avvocati e, perché no, artisti.
Una sorta di radiografia su tutti i mestieri che gravitano intorno all’evanescente mondo della musica, per dare una visione più ampia su cosa c’è dietro a un successo e a una carriera discografica.
Insomma, proveremo a cercare di farci svelare qual è ‘L’altra Faccia della Musica‘.
PER SEGNALAZIONI E CONTATTI: ALEX PIERRO – pierro@hotmail.it – 347.9703822