Al Teatro Quirino di Roma, la prima de La scuola delle mogli, diretta dal regista Guglielmo Ferro e interpretata dal maestro Enrico Guarneri, è andata in scena martedì, 5 maggio scorso – repliche sino al 17 maggio prossimo.
La prima assoluta de L’École des femmes classico del commediografo francese Molière, pseudonimo di Jean–Baptiste Poquelin, risale al 26 dicembre 1662 sul palcoscenico del Teatro del Palais-Royal di Parigi (e superò in successo e in valore tutte le precedenti commedie).
Come da tradizione, è ancora riuscita e giusta l’intuitiva alchimia per l’originale versione in nuance mediterranea dello spettacolo del tandem Ferro-Guarneri, (mordente e piacevole déjà vu) considerato il tempo di due ore, o poco più, della rappresentazione teatrale costellata da sano umorismo, arte comica, canzonatura e sarcasmo a lieto fine e dalle risate libere e genuine del pubblico.
Confermato e sempre ottimo il lavoro dell’intero staff dell’ABC Produzioni che ha saputo ricreare, aggiornare e riproporre un contesto epocale tra sfarzi e pecche sociali e culturali e tratti linguistici:“Attraverso una rilettura in siciliano, attenta a non intaccare la struttura della commedia, i personaggi acquistano una nuova linfa che si inserisce nel solco che la grande tradizione teatrale siciliana ha percorso, anche attraverso la traduzione di un dialetto di classici, dei più grandi drammaturghi di ogni tempo.”precisa nella sua nota lo stesso regista Guglielmo Ferro (figlio d’arte, abituato da giovanissimo a pane e teatro, con genitori protagonisti di spicco dei palcoscenici dei teatri italiani, quali Turi Ferro e Ida Carrara).
Tre amici, negli eleganti costumi di scena (che riproducono fedelmente i colorati abiti dell’epoca), piombano in mezzo, a ridosso della curata scenografia e davanti alla rossa platea, fra balconcino e ponte levatoio, dando il via allo spassoso prologo dello sciorinamento di motti e sentenze sul matrimonio, di tresche, tradimenti, traditi o presunti tali in perfetto dialetto siciliano (naturalmente non quello stretto, piuttosto un sicitaliano). Siamo a Catania.
Ma la chiave dell’intera commedia, che esplicita subito la linea arguta dell’interpretazione, che a breve sarebbe seguita, è racchiusa nella frase “Sposare un’oca (o meglio una scecca) serve per non essere un capro.” del ricco borghese Arnolfo (Enrico Guarneri – superbo e al contempo brillante:”Un mondo sicuramente a misura di un interprete come Enrico Guarneri che attraverso una vis comica forte ed energica fa rivivere con slancio il personaggio di Arnolfo.”dichiara il regista – per non smentirlo e non formulare ciò che potrebbe apparire mieloso compiacimento per questo attore che regala anima e corpo al suo lavoro, è preferibile, senza provare a cercare un parere obiettivo, proporre in alternativa il consiglio di andare a vederlo all’opera!).
“Per voi prendere moglie è impresa temeraria.” Sono le parole sibilline di Don Gesualdo (Gianni Fontanarosa) che si sente dire Arnolfo, qualche minuto dopo aver tenuto banco con la sua tesi affermando a spada tratta e a suo favore che:”…esiste forse città di questo mondo ch’abbia come la nostra mariti più pazienti?….Infine, le ragioni di satira son molte, e riderne non posso anch’io da spettatore? Non posso dei traditi…?”. Per Arnolfo, la soluzione, per sfuggire all’ossessione
dell’essere tradito, è prendere una moglie “ingenua, illibata, innocente ma scecca!” e poi rivolgendosi al Notaio (Ciccio Abela), con fare ironico, chiede:”…con una donna, una moglie intelligente e colta, quale per esempio è la vostra signora, non sono corne sicure!?”. Ed ecco la bella pensata di Arnolfo: sposerà la giovane Agnese (Nadia De Luca: riesce a districarsi molto bene nella parte affidatala, impeccabile nella metamorfosi dal ruolo della ragazzina ingenua e fedele a quello della donna avveduta e innamorata), che ha fatto crescere in convento dall’età di sette anni, senza farle conoscere il mondo e le sue seduzioni, obbligandola alla fedeltà e ad una rigida educazione. Tutto però va a farsi benedire quando la ragazza conosce casualmente il giovane Orazio (Rosario Marco Amato: affettato, protettivo e appassionato proprio come deve essere il ruolo dell’uomo innamorato), che è il figlioccio dello stesso Arnolfo.
E’ risaputo che il tema della commedia di Molière, considerata in parte autobiografica, è lo scontro tra gelosia e ragione – probabilmente è presente anche uno scontro generazionale, quello tra l’anziano Arnolfo e il giovane Orazio che attenta alla realizzazione del matrimonio e della fedeltà della promessa sposa Agnese; non manca di atavico machismo, c’è la fobia del tradimento, ci sono anche errate concezioni sulla fedeltà ed elucubrazioni sul mondo femminile; e sicuramente riproduce un concentrato di morale (ma del bene o del male?).
Divertenti, bizzarri ed esilaranti i dialoghi e le circostanze che scaturiscono fra i personaggi al limite del grottesco (spesso dal sapore un po’ amaro) nel gioco lapalissiano degli equivoci. Spensierate inflessioni dialettali e allegri modi di fare tipici della cultura mediterranea contaminano sapientemente la trama originale dell’opera. Mai prevaricata la struttura della commedia, anzi enfatizzata, presa in giro e “catterializzata” con quei toni, quelle congiunture, quell’estro e quello stato di cose che sono identificativi della gente mediterranea d’altri tempi (anche se, per esempio, la gelosia non è detto che sia proprio d’altri tempi e, magari, non è detto che bisogna essere un isolano per essere gelosi!).
Uno spettacolo che rapisce e ubriaca col suo profumo di zagare (metafora appropriata o punto di vista del comune spettatore? Breve parentesi a chiarimento della fugace analogia: la zagara è il fiore degli agrumi – si intende in particolare il fiore dell’arancio e del limone, la cui fioritura avviene proprio in questo periodo, tra aprile e maggio – oltreché del bergamotto. Queste piante sono tipiche delle terre mediterranee. Sarà anche che la zagara, spesso, è per tradizione nel bouquet di nozze: è noto il nesso tra fiori d’arancio e matrimonio. Detto questo:) La commedia ha i colori, gli odori di questi fiori e il gusto consistente e agrodolce dei loro frutti: e al pubblico (fra cui volti noti al mondo del Teatro Italiano: Geppy Gleijeses, Marianella Bargilli, Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini) non è affatto dispiaciuta l’idea di lasciarsi trascinare da questo effluvio di battute istigante del turbinio di risate a crepapelle.
Qualche piccola “variazione” qua è la, che serve a contestualizzare il racconto in terra mediterranea, scatena ulteriore ilarità, crescente man mano che si giunge all’epilogo della storia. Basta pensare per esempio ai tanti, diversi e ritoccati battibecchi tra i servi Alano e Giorgina (ovvero Vincenzo Volo e Amalia Contarini perfetti nei panni di servitori fedeli, buzzurri e rustici, pronti a trarre moneta sonante appena se ne presenta occasione) e il padrone Arnolfo – al rientro dal suo soggiorno di bellezza a Napoli, in occasione delle sue nozze – per la parola d’ordine a garanzia dell’ingresso nella casa in cui il nobile signore custodisce la sua futura consorte; oppure a quello in cui Orazio rapisce Agnese, visto prossimo il momento del matrimonio tra quest’ultima e l’Arnolfo Del Ceppo/Del Cervo, incappando sotto i bastoni dei servitori che a momenti quasi lo uccidono per far felice il loro misero padrone che vede sfuggirsi di mano il sogno d’amore.
E non andiamo oltre con l’esposizione dei fatti e della vicenda per lasciare un sospeso d’interesse, ricordando però gli altri due personaggi e interpreti Don Blasco, Pietro Barbaro, e Salvatore, Mario Sapienza, importanti pedine nelle mosse finali del corso degli eventi a chiusura della commedia.
Scroscio di applausi (che ha eclissato un momentaneo, inaspettato e vicino rimbombo musicale) per due atti piacevolissimi – zeppi di tante contrapposizioni, tante consuetudini e differenze di vedute, molto riso e nessuna vera querelle – affidati ad un ingranaggio rodato alla guida di Guglielmo Ferro e alla prorompente interpretazione di Enrico Guarneri, nelle vesti del caro Arnolfo, che da furbo, quale si ritiene di essere, alla fine viene invece beffato (traducendo audacemente, e rimanendo in linea con la peculiarità della messa in scena teatrale, si potrebbe altresì dire che Arnolfo, ara fine da fera sarà cornutu e mazziatu!).
Maria Anna Chimenti