Coronavirus, da oltre due mesi nella regione assistiamo a prestazioni a singhiozzo, quando non sospese, per patologie che nulla hanno a che vedere con il Covid-19, tanto da far dichiarare a qualcuno che entro breve potremmo assistere a “morti per una epidemia di tumore” più che per la pandemia. In tanti, pur avendo prenotato attraverso il Recup, sistema centralizzato di Asl e ospedali del Lazio, sono in attesa di una visita o un esame rinviato a data da destinarsi. Servirebbe una programmazione che tenga conto delle prestazioni sospese, tra controlli specialistici, analisi di laboratorio, esami radiologici ma, a differenza della vita sociale e del comparto commerciale, che a mano a mano si stanno risollevando pur tra mille difficoltà, nella sanità non si vede luce. Soltanto improponibili annunci che non risolvono certo il problema. Il 3 giugno dovrebbe ripartire tutto ma dall’assessorato alla sanità si parla esclusivamente di recuperare i tempi attraverso le cosiddette “prestazioni aggiuntive”, tanto da evocare un presunto ritorno alla normalità più difficile dell’emergenza che ha determinato tale stato di cose. Alle difficoltà del passato causate dalle improponibili, interminabili, estenuanti liste di attesa, si somma quindi tutto l’arretrato di due mesi che si vorrebbe risolvere con tale istituto, che consiste nell’acquisto di prestazioni – ossia lavoro fornito da medici e infermieri fuori dall’orario di servizio – per un ammontare massimo mensile di 15 o 20 ore pro capite, una inezia per recuperare tutto l’arretrato accumulato. Abbandonata l’idea degli straordinari che non vengono più pagati, si tenta di applicare normative che prevedono rigidi paletti, visti dagli operatori sanitari come un pannicello caldo che certo non risolleverà le sorti della nostra disastrata sanità pubblica. Asl e ospedali dovrebbero garantire il servizio fino a tarda sera e anche nel fine settimana, esperimento già tentato in passato per risolvere il problema delle liste di attesa, che non ha dato i risultati sperati. Questo in regime di normalità, immaginiamo in una situazione di emergenza come quella determinata dal coronavirus. La direzione della sanità regionale in ogni caso sembra non essersi posta il problema, visto che ha inviato a tutti i direttori generali le linee guida per la ripresa, confidando nel lavoro extra orario che dovrebbe sopperire, oltre che al pauroso arretrato, a una cronica carenza di personale a tutt’oggi irrisolta. Sul tema è intervenuto Elio Rosati, segretario regionale della organizzazione Cittadinanzattiva, da anni impegnata per i diritti del malato, che in una lettera all’assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D’Amato ha ribadito quanto sia “lungo l’elenco dei servizi e delle strutture che sono state chiuse, accorpate e/o temporaneamente sospese in questi ultimi due mesi che, nel frastuono delle notizie sul Covid-19, passano mediaticamente sotto silenzio.” Se si dovessero elencare uno per uno i presidi che hanno subito limitazioni non si finirebbe mai. A partire dalla Asl Roma 1 dove il poliambulatorio di Casalotti in via Boccea 625 ha interrotto il servizio prelievi e le visite mediche con persone dirottate a Montespaccato, luogo difficile da raggiungere con i servizi pubblici da alcuni nuovi quartieri del municipio.Per il primo il 24 maggio si è svolta una manifestazione di cittadini contrari alla chiusura mentre le future mamme di Velletri per partorire, dovranno spostarsi al nuovo ospedale dei Castelli sulla via Nettunense, una sede non proprio comoda e vicina. E la sanità della provincia sembra essere la più penalizzata: Rieti su 107 province è al 100esimo posto per mobilità passiva. Se si è afflitti da un problema serio di salute si deve migrare. A Fondi, in provincia di Latina, l’ospedale soffre da anni di un progressivo impoverimento dei servizi. Con la creazione della zona rossa causa contagio Covid, 19 la struttura ha avuto alcuni reparti chiusi e altri trasferiti momentaneamente a Terracina ma resta incertezza sui futuri servizi, perché nella stessa Asl di Latina, se Fondi piange, Terracina certo non ride. L’ospedale ormai è verso un lento e progressivo declino. Neanche l’accorpamento di servizi dovuto al Covid-19 è servito a rivitalizzare la struttura, per cui si parla da tempo di chiusura. Come nel caso di Rieti, la riduzione di servizi e prestazioni della sanità pubblica, a lungo andare, sta producendo l’effetto “migrazione” verso strutture accreditate o distanti dalla propria residenza con le difficoltà del caso. Pensiamo, ad esempio ai bambini, che devono essere accompagnati dai genitori, o alle persone anziane e ai malati cronici e i pazienti affetti da patologie “rare”, spesso impossibilitati a sopportare lunghi spostamenti. Tra prestazioni rinviate, servizi chiusi, tagli indiscriminati, la nostra sanità sembra sempre di meno fatta a misura di cittadino, contrariamente a quanto stabilito dalla Costituzione.