Al Teatro Studio Uno, nella domenica della festa delle mamme – il 10 maggio scorso -, si è concluso, con la replica delle 18.00, “Il Giuramento“, scritto e diretto da Gaia Adducchio, protagonista Camilla Diana, promosso da Spring produzioni artistiche di Grazia Sgueglia. Lo spettacolo è suggerito dalla storia vera di Violette Ailhaud raccontata ne “L’uomo seme” (L’homme semence, scritto nel 1919, è il titolo selezionato dalla casa editrice Parole, che lo ha pubblicato in Francia.
Decine di migliaia le copie vendute: ha ispirato spettacoli di teatro, danza, fumetti. Esiste, addirittura, un festival, a Digne, intitolato a L’homme semence).
Sul piccolo palcoscenico, un tema perfetto per commemorare la giornata: il cammino suggestivo e profondo di Violette per la messa in scena dell’infinito femminile. Il monologo de “Il Giuramento” rende benissimo quell’idea e il messaggio che riporta in una nota di regia Gaia Adducchio: le donne “sono e vogliono essere madri, ma vogliono essere anche amanti, responsabili politicamente e socialmente del loro amore e consapevoli della propria sessualità”.
Dal manoscritto, romanzo autobiografico di poche decine di pagine – scritte con quel vocabolario semplice, quelle figure rurali e quell’autorevolezza realistica del patois -, il passo è breve per giungere oltre, fino all’efficienza di una storia che sembra un racconto morale, quasi una parabola del vangelo, preparata per sciogliersi nella rappresentazione teatrale riadattata dalla regista e interpretata da Camilla Diana.
La protagonista, anche se giovanissima, cattura l’attenzione già dalle prime battute, quando entra in scena curva, a testa china, passo lento e voce flebile per dar vita (senza l’aiuto complesso di trucco e parrucco) alla protagonista del racconto, l’ottantaquatrenne Violette, mentre La Marseillese squarcia il silenzio: “Allons enfants de la Patrie…”(Avanti, figli della Patria…).
Al centro della scena penzola un cappotto e, sotto di esso, sul pavimento, sono abbandonati ma in ordine, degli scarponi da uomo. Violette spazzola il grigio cappotto. Dalla cornice di un quadro si affaccia un ritratto maschile.
Intorno accessori di uso quotidiano e misera mobilia. In primo piano c’è la gioventù della donna. Questa ripercorrendo all’indietro i ricordi, man mano riacquista agilità, freschezza e fare dinamico: mette via le pantofole ed indossa gli scarponi; il viso si rilassa, perde quel movimento classico della mandibola, quasi un ruminare, che affligge le persone anziane o senza denti; la schiena torna dritta e le frasi riacchiappano tono. Ed eccoci nel 1852, Violette ha circa 17 anni: è testimonianza viva della deportazione e uccisione di tutti gli uomini del suo paese (fra cui l’innamorato, Martin, e il padre) per conto delle truppe dell’Imperatore Napoleone III, le petit Napoleon (Alpes-de Haute-Provence: 2 dicembre 1851. Luigi Napoleone Bonaparte abolisce la Costituzione, mette fine alla Seconda Repubblica e si autoproclama imperatore di Francia e uccide quasi tremila persone!).
Non serve l’immaginazione per capire lo stato d’animo di una ragazza a quell’età, ma potrebbe bastare l’immagine quale quella della primavera, per descriverne solo in parte la donna che già lei è.
Dopo qualche anno, con le altre donne, rimaste sole nel paesino provenzale di Poil, mentre insieme trascorrono la sera riparate dagli alberi e sotto le stelle, dopo la snervante fatica del giorno, si sigla un patto indissolubile: il primo uomo che si presenterà all’orizzonte diventerà il compagno di tutte, il seme del villaggio.
“Sembravamo un gruppo di faraone impazzite. Le nostre idee volavano come cavallette, si incrociavano con le ali aperte di tutti i colori: blu, rosse, arancioni. Avevamo detto tutte la stessa cosa in mille modi diversi. Ma eravamo d’accordo.” Racconterà Camilla/Violette buttando per aria i panni stesi al sole.
Sfinito dal lavoro e dall’assenza d’amore, il racconto di Violette prende corpo con l’arrivo dell’uomo tanto atteso. Ecco, quello che prova la donna dal momento in cui lo scorge:”Ogni volta che l’uomo si eclissa dietro un avvallamento del terreno, mi chiedo se non l’abbia sognato o se non sia lui che abbia semplicemente deciso di fare dietrofront. Mi giro verso le mie compagne e leggo sulle loro facce la mia stessa angoscia.”
Violette è la prescelta, a lei si è rivolta Jean, il maniscalco appena arrivato e, che come lei, ama leggere libri. Violette ha il diritto di precedenza sull’uomo ma dovrà condividerlo, dovrà spiegargli tutto, dirgli del patto, metterlo a conoscenza delle condizioni per poter rimanere in paese. Ma Violette s’innamora. Toglie i rudi scarponi maschili, scioglie i lunghi capelli. Rinasce la donna e la sua femminilità. Il dolore fa posto all’amore:“Avevamo previsto tutto per l’arrivo di un uomo. Il primo obiettivo sarebbe stato il suo seme, poi le sue braccia, infine la sua presenza…ma non l’amore” dice, rivolta al pubblico (che la sala può contenere), con occhi sognanti, l’attrice.
Il seguito non lo scopriamo (riconosciamolo però come naturale ricerca del desiderio, del piacere e dell’amore che culmina nell’essere madri), ma sveliamo il curioso uso di due spaventapasseri realizzati seduta stante, durante il monologo, assemblando ramazze, corde e carrucole dalla giovane attrice (per evocare il remake della coppia!), che alla fine si faranno spazio sul palcoscenico e saranno applauditi accanto all’ormai anziana protagonista.
Breve inserto di curiosità e confidenze. Grazia Sgueglia, Gaia Adducchio, Camilla Diana: la produttrice, la regista e l’attrice de “Il Giuramento”
Ci sono state difficoltà nel coordinarsi con la regista e l’attrice per realizzare il progetto? Le repliche sono finite, che programmi avete per lo spettacolo realizzato?
(La produttrice) Grazia Sgueglia: No. Siamo amiche di vecchia data con Gaia. Con Camilla è stata subito empatia, una piacevole sorpresa anche dal punto di vista professionale!
Per quanto riguarda lo spettacolo, ci piacerebbe portarlo in un teatro più grande e concentrare la rappresentazione in due o tre date, qui a Roma. Certamente non ci vogliamo limitare: siamo comunque disposte anche a farlo circuitare nei teatri in giro per l’Italia, se ne vale la pena (mi riferisco alle spese).
Qual è il punto di forza di questa rappresentazione teatrale?
Sicuramente la tematica. Una tematica importante che non viene trattata in modo banale. Un testo ambivalente: un confronto tra femminismo e femminilità ambientati nell’800; il racconto sembra in chiave femminista ma la smentisce pure, e alla fine prevarica la femminilità sul femminismo.
A questo punto prende la parola (La regista) Gaia Adducchio: Secondo me, è proprio questa ambivalenza che rende lo spettacolo interessante. Ciò che c’era piaciuto del testo, quando lo abbiamo incontrato, era questo uscir fuori dagli schemi di Violette – che non è femminismo, bensì la lettura semplificata che viene proposta oggi del femminismo. Così la maternità, l’istinto materno sono prigionieri di una visione che erroneamente diventa una limitazione e non un diritto della donna, che è poi anche quello che sostengono Simone de Beauvoir e tante altre, anche se non in maniera esclusiva. Molte mie amiche vivono la maternità come una privazione d’opportunità lavorativa, per altre, di converso, non è così. Naturalmente vi sono diverse variabili che cambiano da persona a persona: dipende dagli aiuti, dalle disponibilità economiche, dal rapporto con il partner, dal suo lavoro.
Che differenza c’è quindi, fra ciò che è il concetto del passato di donna-madre, racchiuso nel testo di Violette, e la concezione di donna-madre contemporanea?
A parer mio, la differenza oggi, rispetto al testo di Violette, è che si cerca di affacciarsi ad un discorso familiare e di coppia, inteso come responsabilità di coppia, responsabilità di entrambi. Al contrario, Violette fa parte di una cultura dove la responsabilità dei figli rimane di appannaggio esclusivamente materno. Ecco il perchè di questo riscattarsi in chiave femminile nel racconto, mentre oggi la maternità, forse diventa un diritto e una responsabilità di coppia. Credo che questa sia la vera rivoluzione culturale dei nostri tempi.
Il testo de “Il Giuramento” è stato riadattato. Quali sono state le difficoltà a cui si è fatto fronte?
Una delle cose con cui abbiamo avuto difficoltà con il testo originale, è che Violette liquida Jean in modo molto semplice. Il rapporto padre-figli non viene trattato. Oggi, invece non è così. Mio marito ha un rapporto bellissimo con le figlie. Ci è capitato – a noi e i nostri compagni, mariti, fidanzati – di porci delle domande su questa storia, e oltre alla ovvia e facile ironia sulla disponibilità di tutte queste donne per un uomo, ci siamo soffermati su come un uomo potesse lasciare un villaggio pieno di spose, e poi sull’aspetto più importante che è quello di come un uomo potesse lasciare un villaggio pieno di figli, i suoi figli. Questo è stato il vero sforzo di riscrittura del testo. Abbiamo cercato di renderlo meno semplicistico e più complesso. L’unica risposta che ci è venuta in mente è stata questa: lui non poteva compromettersi con nessuna, perchè la sua scelta avrebbe privato le altre.
(La produttrice) Grazia Sgueglia: Jean non poteva fare un harem, non poteva essere di tutte, era una soluzione impossibile sia culturalmente sia legalmente. Lui va via per lasciare un equilibrio.
(La regista) Gaia Adducchio: La sua funzione, alla fine, sarebbe rimasta quella di un portatore di seme. ‘E’ un uomo accorto non avrebbe scelto una cosa così compromettente’ sarà quello che dirà Violette e che nel testo originale non c’è. Noi abbiamo deciso che Jean avrebbe trovato compromettente una proposta simile.
(La produttrice) Grazia Sgueglia: Praticamente, nel testo originale, il focus è su Violette e non su Jean.Per rendere lo spettacolo fruibile abbiamo fatto questa forzatura. Lo abbiamo attualizzato.
(La regista) Gaia Adducchio: Il testo originale, comunque contiene molto di quella modernità contemporanea (quale per esempio l’oggettivazione dell’uomo) che ai nostri occhi appare ovvia.
(La produttrice) Grazia Sgueglia: Nello spettacolo c’è anche un’inseminazione artificiale ad litteram, propugnata da questa comunità di donne. Però quando arriva l’uomo loro si innamorano. Si riscoprono a guardarsi allo specchio. E’ quasi un voler fare un passo indietro su quello che si era pattuito.
Donna e uomo vivono in modo diverso il rapporto di coppia?
(La regista) Gaia Adducchio: Penso che non ci sia una prerogativa nel provare sentimenti in un rapporto. Penso che le persone indistintamente, uomini e donne, provino sentimenti… altrimenti penso ci siano problemi di fondo…Non è solo la donna a provare sentimenti.
Ci raccontate qualcosa di divertente o di particolare che è capitato durante la realizzazione di questa trasposizione teatrale?
(La produttrice) Grazia Sgueglia: Beh, Camilla era divertente quando Gaia cambiava qualcosa di regia perchè sosteneva sempre di non potercela fare ed esordiva con la classica frase:’Ma così mi cambi il personaggio!’, in modo intelligente, senza rovinare l’armonia creata.
(La regista) Gaia Adducchio: I nostri incontri, le prime volte si facevano a casa mia (avevo la bambina piccola) nel caos delle due bambine, del cane che mendicava qualcosa da mangiare, dei due gatti che importunavano. E’ stato tutto molto rumoroso. Un bel lavoro di gruppo. L’aspetto più bello del progetto. Camilla si è rivelata, oltre che una brava attrice, una bella persona. Comunque nessuna di noi si è risparmiata.
Arriva di corsa (L’attrice) Camilla Diana: La prima volta che ci siamo incontrate, Gaia aveva partorito da poco, si portava dietro la bambina e se la sistemava accanto. Quella è stata una delle poche occasioni in cui stranamente la piccola è stata buona e tranquilla, dormendo tutto il tempo sul divano. Abbiamo trovato subito la giusta intesa, facendo gruppo e realizzando un bel progetto. Ci siamo sempre confrontate e abbiamo fatto le scelte necessarie per fare un buon lavoro.
Ma che cosa vi ha spinto a scegliere il racconto di Violette A.?
Ognuna di noi è stata attratta da qualcosa. Per Gaia e Grazia è stato il tema trattato, per me una frase che ho letto e che dico all’inizio del monologo, ovvero:’Ho in grembo un dolore da due anni’. Sono parole importanti che racchiudono tanto: pare di sentire il peso greve di tutto il racconto, della storia di Violette e di tutte le donne del villaggio, il vuoto e la mancanza di amore.
Che differenza c’è fra portare in scena un monologo e recitare con altri colleghi?
Il monologo ti consente di dettare tempi e modi. Sei da sola con il pubblico. Devi fare in modo di tener desta l’attenzione sempre. E’ una sensazione bellissima e particolare. Non è difficile nemmeno lavorare con altri colleghi, alla fine, anche li, cerchi di dare il meglio, solo che lo fai insieme ad altri. E i tempi non sono più solo i tuoi.
A che cosa potresti paragonare questa esperienza?
Ad un viaggio. Un viaggio appena iniziato. Nella valigia ho messo le cose di cui non posso fare a meno, la mia esperienza, la mia conoscenza, la mia competenza, le mie aspettative. Adesso mi sento come quel turista che scatta le foto o che guarda i paesaggi che scorrono al di fuori del finestrino, Spero di mettere in valigia il mio souvenir da riportare a casa.
Maria Anna Chimenti