Susanna Schimperna affronta con coraggio, lucidità e onestà intellettuale quella morte di cui è proibito dire e che scuote l’essere umano a tal punto da rimanere un tabù: il suicidio.
“L’ultima pagina” (Iacobelli, 2020) ha come protagonista indiscussa quest’ultima scelta, un atto che nel lavoro dell’autrice si ipostatizza in venticinque esseri umani scrittori e scrittrici, tanto diversi in tutto e per tutto l’uno dall’altro. Molti di essi poco conosciuti, alcuni più che noti, anzi tutt’oggi amati, di cui non si conosce, se non vagamente, l’atto ultimo che ha posto fine alla loro vita. C’è da essere grati a Schimperna per essere entrata nelle pieghe segrete dell’infelicità, conducendo il lettore per mano, con quel garbo, quella rispettosa delicatezza con cui si è coraggiosamente inoltrata nei deserti dell’anima, nei vuoti di senso, nel mistero infine che caratterizza ogni personalità.
Il libro racconta con estrema precisione, senza pietismi e senza giudizi e con notevole capacità di sintesi (tre, quattro pagine o poco più) l’intera storia di anime disperate nel senso proprio del termine, prive di quello sguardo progettuale verso un futuro possibile che chiamiamo speranza. La minuziosa documentazione, quasi ossessiva ma necessaria per essere veri, per cercare una via di luce che porti non a comprendere, che è impossibile, ma ad avvicinarsi quanto più al mondo interiore di questi scrittori, è sorprendente. Lo stile narrativo asciutto, senza sentimentalismi, veloce, dove sono annotate le innumerevoli vicende, le tantissime persone citate in quanto amici, conoscenti o detrattori di questi autori, fanno sì che il lettore corra rapido a una soluzione che non potrà essere che quella. Schimperna lavora con la precisione di chi vuole ricostruire la scena di un crimine senza alterarne le prove, con guanti e buste dove raccogliere anche i più apparentemente insignificanti reperti, o come un chirurgo che compie l’autopsia su un corpo in un ambiente asettico, poiché “verum ipsum factum” e la verità non va mai tradita, occultata, per quanto sia possibile.
Di contro, la domanda umile che ritorna: si sarebbe potuto fare forse qualcosa per aiutare queste persone? perché nessuno ha capito, o se ha capito ha preferito il silenzio?
E’ un appello disperato e commovente. Forse un ascolto, una parola buona, chissà.
Ognuno di noi si trova ad essere gettato nel mondo, è un “in-der-Welt-sein”, come dissero Heidegger, e ripeté Jaspers, il più grande psichiatra dello scorso secolo. Ognuno entra nella vita in un mondo e impara ad essere in quel mondo, il piccolo mondo determinante della famiglia che poi diventa l’intero teatro del proprio “sein”. Non è dunque lecito se non ricostruire fenomenologicamente, minuziosamente, i particolari, attraverso le testimonianze, spesso premonitrici, degli scrittori suicidi, nel tentativo di accostarsi al loro dolore, che infine è il minimo comun denominatore di ogni umana vita. Questo il grandissimo merito del libro poiché tutti gli
esseri umani sono fragili, tutti nella possibilità di essere travolti da personali condizionamenti, pregiudizi e ombre. Quanti, anche solo per un attimo, non son stati sfiorati nell’adolescenza dal pensiero werteriano della morte, o in età più matura non si sono trovati in difficoltà tali dove la scelta era sopportare la vita o abbandonarla? Un “aut-aut” dove, come direbbe Kierkegaard, entra in gioco il libero arbitrio dell’uomo? Magari un attimo, ma fa parte dell’esistenza e non è sano giudicare, etichettare come depressi o folli coloro che hanno mollato tutto e tutti lasciando il mondo circostante nello stupore e forse anche in un grande senso di colpa, a volte proprio voluto nel
compiere quell’ultimo gesto e magari per le famiglie vergognoso, un’onta da celare. Ma l’autrice afferma anche che per compiere quel gesto si richiede un coraggio assoluto, un viaggio verso l’ignoto che ogni essere umano teme. Forse la perdita della ragione? O una ragione talmente lucida da non avere alcun dubbio? Una follia lucida? Non certo la ragione apatica degli stoici, il sacrificio dei martiri per una fede. Sicuramente una vita divenuta insopportabile come per l’infelicissimo Eros Alesi che a vent’anni vive il sentimento orribile dell’esclusione dalla vita “normale”. Il suo mondo non ha posto in questo mondo. Antonin Artaud, bellissimo e geniale, vive da sempre il sentimento di alienazione e “fuorclusione”, come direbbe Lacan. L’anticonformista Pierre Drieu La Rochelle, anche lui è caratterizzato dal pensiero divergente. Ma non c’è posto per chi è così. Per non parlare di Hemingway, dalla vita in tutto eccezionale, fuori dalle convenzioni, sottoposto a cure atroci come molti altri. Quando non si capisce nulla dell’anima si ricorre ai farmaci e, cosa inaudita, all’elettroschock che finisce col distruggere in assoluto la voglia di vivere anche nel più vitale degli uomini.
Si potrebbe andare avanti all’infinito ma i venticinque autori scelti sono icone di quanto già affermava Durkheim nel 1897 nella sua opera “Il suicidio” laddove, pur considerandone i diversi tipi, vede comunque determinante il contesto sociale, economico e culturale in cui l’individuo è calato. Ognuno è gettato in un mondo specifico e vive il mondo a seconda della famiglia di origine, la società nella quale si è plasmato e ha imparato a interpretare gli eventi della vita come opportunità o minacce al proprio sistema cognitivo.
“L’ultima pagina” non suscita “pietà”, sentimento che presuppone un porsi dall’alto in basso, ma compassione, “cum-pati”, empatia, nonché sorpresa, meraviglia e domande, tante: perché mai persone di successo, quello agognato da qualunque scrittore, all’apice della carriera, hanno deciso di chiudere, quasi con senso di fallimento? Comprendiamo con maggiore facilità la disperazione di chi ha perso tutto, di chi non è stato amato, apprezzato, di chi si sentì tradito nei suoi ideali ed esule senza terra. Ma ognuno, come si è detto, ha il proprio modo di essere nel mondo e di quello solo si può essere partecipi e muti osservatori.
E’ un libro affascinante molto più di un giallo perché riguarda tutti, «Giacché – come afferma Dostoevskij nel romanzo “I fratelli Karamazov” – sappiate, cari, che ciascuno di noi è senza dubbio colpevole per tutti e per tutto ciò che accade sulla terra, non solo per la comune colpa del genere umano, ma ciascuno personalmente è colpevole per tutta l’umanità e per ogni altro singolo uomo sulla terra». E’ un libro importante dunque, originale, indefinibile, a metà tra saggio e racconto biografico, scritto con stile magnifico, lapidario, direi epigrafico, dove le parole corrono veloci come la punteggiatura e sono di un’assoluta puntualità. E’ frutto di un lavoro imponente che non ha la finalità di dare spiegazioni che non si potranno mai dare ma ci fa guardare dentro e fuori: era
l’unica strada per non tradire la realtà, almeno quella conoscibile, e adempiere al dovere etico di non chiudere gli occhi di fronte al pur minimo dettaglio che ha valore e non va trascurato poiché la vita è costruita da tanti tasselli, eventi, pensieri e comportamenti atomici di cui non ci si rende conto ma che infine definiscono l’ identità.
Susanna Schimperna, con assoluta umiltà, poiché saggiamente sa di non sapere il motivo profondo che l’ha spinta a scrivere questo libro e a scegliere proprio queste e non altre vite, chiede al lettore quasi un’illuminazione sul perché della sua scelta. Credo sia questo.
Giovanna Breccia