Chi è Massimo Priviero, raccontato da Massimo Priviero?
È uno che è nato sulla costa veneta, nella provincia; che da ragazzo amava Dylan, Neil Young, Springsteen, un certo tipo di musica; che ha cominciato a scrivere le sue canzoni e contemporaneamente faceva l’università e lavori saltuari, quelli che capitavano, il conservatorio e poi è arrivato a Milano. Venticinque anni fa ha fatto il suo primo disco, che ha avuto molto successo nell’ambito del rock d’autore. È una persona che non ha accettato certe logiche, che ha rifiutato certi compromessi, perché ha pensato che doveva principalmente essere un uomo libero, un uomo vero e questo è quello che provo, che ho provato a fare. Con il passare degli anni si è ricostruito una seconda parte di carriera, se vuoi più di culto, però radicata, che gli ha portato anche un nuovo modo di comunicare con la sua gente, con la gente che lo segue in maniera vera, pulita. È uno che cerca prima di tutto di essere quello che sono le sue canzoni che, anche se banale da dire, è una cosa che a mio parere riguarda pochi: essere quello che scrivi. E poi di dare forza. Perché alla fine anche nei momenti più di ripiegamento, c’è sempre un’idea positiva. Ed è questa la cosa che voglio far venir fuori.
Tu nasci e cresci a Jesolo. Inizi la tua carriera, inizi con le tue chitarre, le tue band… Ho sentito anche molto parlare di un tuo girovagare per l’Europa.
Sì, ho fatto il menestrello da ragazzo, mi mantenevo durante i miei vagabondaggi suonando nelle stazioni delle metropolitane.
C’è qualcosa che rimpiangi di quel periodo? C’è qualcosa che ti manca? La musica era più vera, più genuina?
Sì, la musica era più vera – questo è sicuro – e c’era una forma di innocenza nello stare al mondo che non riguardava ovviamente solo il fatto che fossi un ragazzo di vent’anni, ma riguardava anche il modo in cui vivevi la musica. Era tutto meno sporco, meno contaminato da un qualcosa che è diventato essenzialmente business e che poi si è auto-mangiato, perché alla fine i dischi si vendono sempre meno e il sistema, in qualche modo, è collassato da solo a suon di spingere e di suonare spesso il nulla. C’era molta più innocenza sicuramente, nel valore positivo che io do alla parola innocenza, che è diverso da ingenuità. È proprio la purezza che conta.
Un vero rock’n’roll-man insomma…
Sì, un menestrello per tanti aspetti. Uno che amava e suonava Dylan, gli Stones, Neil Young, quel tipo di canzoni lì, e poi cercava di scrivere le sue. La necessità di essere libero fondamentalmente e di raccontare la tua storia e trovare il tuo posto nel mondo.
Nel 1955 un giornalista su Variety, nota rivista americana, scrisse: «Il rock è una moda passeggera; sarà morto entro giugno». Cosa ti senti di dire?
Ricordo che, quando venni a Milano alla fine degli anni 80, andai ad un concerto con vari discografici e manager che mi invitarono e mi indicarono uno dicendomi: «Vedi quello li’? Quello li è diventato famoso perché quando aveva la possibilità di distribuire un gruppo, rifiutò dicendo che non sarebbero mai andati da nessuna parte». Erano i Beatles. Per cui evidentemente qualcosa gli era sfuggito e a distanza di trent’anni più o meno, era ancora ricordato per quello.
Parlavamo del tuo esordio nel 1988 con l’album San Valentino (Warner Music, 1988) ed è stata Milano a darti questo lancio. Tu sei venuto a Milano per cercare qualcosa o è stata una conseguenza?
Se partivi dalla provincia e volevi fare dischi, soprattutto in quegli anni, dovevi venire a Milano. Qui c’erano le case discografiche, i manager, le possibilità di trasformare la tua passione in professione: quindi io venni qui e la combinazione volle che incontrassi quella che divenne poi mia moglie. Mi sono sposato dopo un paio d’anni, ho fatto un figlio, sono diventato milanese d’adozione come si dice. Però arrivai davvero con la chitarra e con lo zaino, non avevo appoggi particolari, arrivai solo con le mie cose, in un momento probabilmente buono per andare da una multinazionale. Erano gli anni in cui bastava che dicessero «C’è il nuovo disco di Madonna» e milioni di persone correvano a comprarlo…
Ti aspettavi un successo cosi veloce, cosi importante?
Ma sai, ero talmente incosciente in quel momento, non è che ne fossi sorpreso… Quando vivi un po’ tra le nuvole, in mezzo ai tuoi sogni e leggi le storie, ti sembra quasi naturale che ti succedano certe cose. In realtà non lo era, ma me ne sono accorto dopo, a mie spese quando ho cominciato a capire come giravano le cose, tutto quello che c’era dietro e a vivere situazioni difficili in cui mi son trovato. Però in quel momento mi sembrava tutto abbastanza consequenziale all’idea di arrivare nella città dalla provincia e spaccare tutto. Era un po’ come le storie che leggevo nelle biografie. In realtà, ovviamente, non era proprio cosi.
Hai affermato: «Quello che è realmente impossibile da spiegare, tanto più in Italia, è che un uomo possa non considerare come valore per la propria vita un certo tipo di successo e che lo rifiuti percorrendo la propria strada, facendo album, concerti, scrivendo libri e quant’altro, ritenendo che quella è la sua strada, la sua vita ed è questo che conta davvero».
Cos’è oggi il successo specialmente in un momento dove non sembra più importante fare quello che ti piace, fare le cose fatte bene, ma conta solo l’apparire, la televisione, la radio? Come ti poni?
Esattamente così. Ho fatto un album, faccio i miei dischi, i miei concerti che non seguono mode, non seguono tendenze, non ammiccano a niente. Non ho amici altolocati, sono parecchio fuori da certi giri perché mi sono chiamato fuori e non considero un certo tipo di successo come un valore. Considero la mia vita un valore, perché è l’unica, vera cosa importante che ho. Continuo a pensare che quello che conta per me è soprattutto essere un uomo libero, il più possibile vero, quindi faccio i miei dischi, il mio pubblico mi segue, dico quello che penso e vado avanti per la mia strada. Non ho bisogno di andare al centro commerciale e di trovare la persona che mi riconosce e mi chiede l’autografo, non mi arricchisce, non è una cosa che ha senso per me. Lo so che il mondo gira in maniera diversa, che i ragazzini, ahimè, venderebbero l’anima per poter avere un certo tipo di riscontro, ma non credo che sia questo l’importante. La musica è un’altra cosa. E la vita è un’altra cosa.
Nel 1990 esce il secondo album Nessuna Resa Mai (Warner Music, 1990), co-prodotto da ‘Little‘ Steven Van Zandt. Tu spesso sei stato considerato la risposta italiana a Springsteen, sempre perché in Italia deve essere tutto etichettato e catalogato. Ti sei mai sentito così, ti sei mai sentito ‘stretto’?
In certi frangenti è chiaro che la cosa ti dia anche ‘fastidio’: come dici tu in Italia c’è bisogno di etichettarti. In quel momento ebbi come produttore Steve (tra l’altro credo fosse la prima produzione europea che faceva) e quindi l’accostamento a Springsteen venne quasi automatico, però se m’avessero detto: «Sei la risposta brianzola ai Pooh» sarebbe stato peggio! Ci fu una cosa di cui vado orgoglioso di quel periodo: dopo quell’album uscì una recensione su una rivista americana molto importante di un giornalista venuto in Italia che, avendo sentito il disco e visto un mio concerto, disse che io ero l’unico italiano che se la giocava alla pari con i migliori americani. Lui non mi conosceva, non avevo la possibilità di telefonargli come succede in Italia tra gli artisti e i giornalisti amici, non avevo il quotidiano di partito che mi appoggiava per vari motivi, ero un uomo libero e facevo la mia musica e mi è piaciuto molto sapere che aveva scritto una cosa del genere. È bello quando le cose succedono così, in maniera naturale. Questa fu una di quelle piccole medagliette che ti metti in un cassetto. Io son cresciuto con l’amore per quel tipo di musica e la musica italiana l’ho seguita per alcuni grandi cantautori che abbiamo avuto (De Andrè, De Gregori, ecc.), ma non in ambito rock. Per il resto le grandi madri erano gli Stati Uniti e la Gran Bretagna ed era normale che fosse cosi. L’Italia aveva il melodramma, l’opera, quindi il discorso legato a Bruce era un po’ ingombrante perché, nel misurarsi col numero uno specialmente sul palco, i giornalisti erano sempre pronti a puntare il fucile per spararmi in fronte e dovevo continuare a spiegare che non è che mi fossi bevuto il cervello e avessi detto io questa cosa. Però a Springsteen inizialmente dicevano che era il nuovo Elvis… Io continuo ad avere dei punti fermi importanti: in quell’album ci sono anche dei riferimenti a Dylan, per esempio. Poi è chiaro che con gli anni ho sviluppato un suono e una scrittura sempre più riconoscibile, però se uno riesce a stare sul palco e a ricordare Springsteen c’è solo da dire grazie.
Hai mai avuto qualche riscontro dal ‘Boss‘ personalmente?
Non l’ho mai cercato anche se ci siamo incrociati, specialmente negli anni in cui con Steve eravamo amici. Mi sono trovato ad incontrare grandi star internazionali, per esempio ricordo di un tour con Dave Crosby; ho fatto cose bellissime, però non cerco quel tipo di gratificazione.
Parallelamente in quel periodo sei stato anche testimonial per S.O.S. Racism. Come nasce quell’impegno?
Nacque quando scrissi una canzone che raccontava la storia di Jerry Masslo, un ragazzo nero, una delle vittime di quella prima ondata di immigrazione africana nel sud Italia. Quella canzone diventò la sigla di uno speciale in televisione, non ricordo con precisione quale, e fui contattato dal responsabile italiano di SOS Racism che mi chiese di fargli da testimonial. Era una battaglia che mi sentivo di fare ed è una delle cose di cui vado molto orgoglioso. Essere dalla parte degli ultimi del mondo e mettere la mia forza, la mia voce a fianco di chi è ai margini è una lezione che un certo tipo di rock dovrebbe dare: prestare la voce a chi non ce l’ha.
Nel 1992 esce Rock In Italia (Ricordi, 1992). È forse un voler rivendicare o rimarcare la possibilità di fare un certo tipo di musica, il rock, anche in Italia che fino ad allora era considerato il paese delle canzonette, della musichetta?
In realtà io non ho mai pensato che esistesse un rock italiano, ma esisteva il rock in Italia, come esiste il rock in Grecia piuttosto che in Germania. Era un modo di stare al mondo.
La cosa buffa è che quell’album andò anche bene in Italia, in termini di riscontri, ma andò meglio in Giappone e fu una cosa molto divertente perché io lo seppi solo l’anno dopo.
Mi viene in mente quel periodo, ma soprattutto quello che cercavo di fare, il mio modo di scrivere che, da un lato aveva un certo tipo di forza, di energia, di schema, e dall’altro cercava di non banalizzare e far diventare le mie canzoni storie da bar.
La ‘banalizzazione’ del rock’n’roll è una delle specialità che abbiamo cucinato in Italia; le band alternative contro tutto e tutti spesso diventano, forse ingenuamente, funzionali al potere e al sistema. Ma questo è un discorso un po’ complesso… Poesia da un lato e forza dall’altro: questo è quello che io cerco di fare.
Parallelamente in quel momento, però, succede anche una cosa nella tua vita privata: nasce tuo figlio Tommaso. Come ti ricordi quel momento, quel periodo?
Come il momento più entusiasmante in assoluto: ci eravamo sposati poco prima e la tua vita viene ribaltata come un calzino, però ho cercato di essere, come faccio anche adesso, un padre il più possibile presente. In quegli anni quando Tommy era piccolino rifiutavo gli alberghi che mi venivano pagati per il concerto e tornavo a casa alle cinque del mattino perché volevo riuscire a portarlo a scuola il giorno dopo. C’era una suddivisione dei compiti familiari come puoi immaginarti, e io avevo uno di quelli…
Un altro successo fondamentale direi..
Beh, dovresti chiederlo a lui! Abbiamo sempre avuto un rapporto molto forte. Quando cominciò a giocare a pallone, io lo portavo agli allenamenti, cosa che mi distraeva e mi divertiva molto, e quello diventò il nostro modo per comunicare, molto più della musica in quegli anni, perché ovviamente era piccolino. Poi, col passar del tempo, lui si è appassionato ad un certo tipo di sound, è diventato un fan del grunge, è un amante dei Pearl Jam, dei Soundgarden, dei Nirvana ed è strano per lui che ha vent’anni adesso; è stato quasi un viaggio indietro nel tempo, perché è musica fondamentalmente di vent’anni fa e quindi da lì abbiamo cominciato a comunicare in un altro modo. A lui piace molto quello che faccio, ma non sono la sua rockstar preferita!
Non Mollare (Dig It, 1994) era più un grido di esortazione, un auto-convincimento o…?
Era un album molto ferito, era un momento particolare della mia vita. È un disco molto crudo ed è chiaro che fosse in qualche modo il seguito di Nessuna Resa Mai (Warner Music, 1990): il concetto di umana resistenza me lo porto dietro da sempre. Poi quello fu in assoluto l’album che andò peggio nella mia discografia, quindi ci sono affezionato come al figlio un po’ più storto. Però era quello che volevo fare. Era un periodo di grande energia, avevo finito l’università, mi ero laureato, avevo fatto anche altri percorsi che volevo ultimare. A poco più di trent’anni hai comunque molta forza, molta voglia di fare…
Sulla Strada (Universal, 2009) celebra una carriera ventennale: ricevi due premi importanti, il premio Lunezia e il premio Enriquez, un tour importante che si concluderà con Rolling Live, un dvd registrato al Rolling Stones, storico locale di Milano che, ahimè, verrà chiuso poco dopo. Cosa pensi dell’epilogo che ha avuto questo tempio storico del rock?
Penso che sia stato uno scandalo che soltanto noi in Italia potevamo subire.
Io ero ragazzo e venivo a Milano dal Veneto a vedere i concerti negli anni ’80 ed era fantastico. Quanti mostri sacri americani o inglesi venivano e facevano l’unica data italiana al Rolling Stones.Già negli ultimi anni lo avevano trasformato: ci facevi il concerto la sera e poi attaccavano la discoteca; era già in decadimento però, cazzo, il Rolling Stones a Milano era un’istituzione! Ci suonai quella sera con molta emozione perché era il posto dove andavo da ragazzo ed ero arrivato a suonarci dopo tanti anni… c’era un sacco di gente ed era un posto troppo importante. È uno scandalo, veramente, uno schifo, il fatto che ad un certo punto sia scomparso.
Il DVD nasce proprio con l’intenzione di ricordarmi quella serata. Significava molto da un punto di vista emotivo, di quello che avevo vissuto, dei ricordi… Quando son venuto a vivere a Milano nel 1988 suonai un po’ ovunque, ma non mi capitò mai di suonare lì; magari avevo suonato allo Smeraldo ma non avevo fatto il Rolling Stones che per me era un posto meraviglioso. Un punto d’onore avercela fatta prima che chiudesse.
Lasciamo un attimo la discografia e parliamo della tua biografia: . Qui mostri tutta la tua passione, il tuo impegno anche a favore dei più deboli. Un impegno però, a differenza di altri, mai sbandierato, che non hai mai voluto far conoscere alle persone. La strada, la libertà, temi ricorrenti: che cosa rappresentano per te?
La vita. Sono la vita. L’essenza più importante e il senso della mia esistenza e del patto che io ho fatto con il ragazzo di vent’anni di cui parlavamo prima che suonava in giro alle fermate delle metropolitane, che voleva essere un uomo libero, un ragazzo che inseguiva i suoi sogni e che io non ho perduto. Sbandierare un certo tipo di cose, entrare nei baracconi e fare il concerto per la Pace, non sono mai state cose che ho inseguito. Così è molto più difficile ma è molto più gratificante. L’altro giorno mi ha scritto un ragazzo dicendo di essere stato licenziato ingiustamente, che, davanti al suo ex datore di lavoro, si è presentato con la maglietta con su scritto Nessuna Resa Mai. Ecco, quello ha senso, quel tipo di cose hanno valore per me. Mi è venuto in mente questo aneddoto, ma ci sono tante altre situazioni del genere. Questo dà senso a quello che fai.
Soprattutto, tu parli di libertà senza compromessi…
Sì. È il motivo per cui sono uscito da certe logiche, per cui ho fatto la mia vita, per cui ho detto di no a certe situazioni, in cui mi sono difeso e ho difeso quello che contava per me. Grazie a Dio ho una quantità di pubblico che ancora compra i miei dischi quando escono, che viene ai miei concerti e che mi permette di vivere di quella che era la mia passione di ragazzo e che poi è diventata il mio mestiere, e quindi va bene cosi. È il discorso di prima: il successo, un certo tipo di successo, non è un valore, per cui perché dovrei svendere la mia vita, perché farlo adesso? Dico quello che penso e cerco di essere il più possibile quello che scrivo. La gente che mi segue avverte quel che scrivo e quel che suono che è quel che sono.
Molte collaborazioni, anche il teatro per esempio con lo scrittore Roberto Curatolo con Dall’Adige Al Don. Viaggio Nella Memoria, poi il giornalista scrittore Daniele Biacchessi e i Gang in tour con Storie Dell’Altra Italia. Qual è quest’altra Italia?
Quella degli ultimi, quella dimenticata, quella bastonata, quella che è ai margini e molto spesso è la parte migliore. Siamo un paese dove le minoranze sono probabilmente le più belle del mondo dal mio punto di vista, del mondo occidentale, del mondo sviluppato, chiamiamolo cosi, e sono messe agli angoli dalla maggioranza spesso cialtrona, arrogante e poco onesta e quelle minoranze sono umiliate quotidianamente. Eppure sono le stesse minoranze che tengono in piedi questo paese, che si traducono anche in certe associazioni di volontariato che scopriamo per caso e che fanno delle cose straordinarie, ma sono quelle che non hanno visibilità perché non hanno gli appoggi giusti. Raccontare la loro storia, essere uno di loro in qualche modo è una delle soddisfazioni e delle cose più belle che uno possa fare. Essere con loro, essere uno di loro.
Molte collaborazioni anche con altri musicisti: il chitarrista Alex Cambise, il pianista Onofrio Laviola, Paolo Siconolfi, tecnico del suono in studio da oltre dieci anni e il violinista Michele Gazich col quale hai firmato anche l’ultimo lavoro Folkrock del 2012, un lavoro acustico, di classe. Come ti sei trovato a lavorare con loro?
Beh, con Alex e Onofrio lavoriamo insieme da dieci anni ormai; Paolo è un fonico, è un matto buono, è uno che sopporta me e tutti i meccanismi che puoi immaginare succedono in uno studio. Michele è un signor musicista che ha suonato con mezzo mondo a livello di folk. In Folkrock abbiamo rivisto i classici da Dylan a Springsteen, un viaggio con chitarra e violino, un po’ una sfida. Abbiamo fatto un tour di 25 date, l’album è andato anche molto bene. È stata una cosa che ha spostato in là di qualche mese la pubblicazione di , però era una cosa che sentivo di voler vivere, un po’ più intimista, un po’ più raccolta. Io vivo molto questo chiaroscuro: da una parte la necessità di essere energico, di dar forza e dall’atra di essere molto scarno, molto emotivo e quindi di dare tutto con i minori ingredienti possibili.
Siamo arrivati al 2013. A quasi sei anni di distanza dall’ultimo lavoro di inediti, il 24 settembre esce il tuo nuovo album, 10 nuovi brani, dal titolo Ali Di Libertà (2013). Libertà che ritorna sempre…
È l’album più autobiografico che ho fatto, racchiude dei pezzetti della mia vita che sono secondo me dei pezzetti anche della vita degli altri, della gente che mi è vicina, che viene ai miei concerti, ma me ne sono accorto alla fine perché sono frammenti di esistenze che si sono sovrapposte. C’è questa commistione tra parte energetica, chitarra elettrica e cornamuse, fisarmoniche e c’è un lavoro molto attento sulla parte lirica e sulla scrittura.
Il titolo Ali Di Libertà (2013) porta con sé questa idea di grandi ideali di cui comunque sono ancora figlio. Ho ancora bisogno di parlare di questo, di provare a spiccare il volo, magari rischiando di cader giù. Ali Di Libertà era anche un film che mi era piaciuto molto all’epoca e quindi alla fine è venuto fuori cosi.
Il concetto di libertà del ragazzo di vent’anni fa rispetto al concetto che hai oggi è cambiato?
Nel profondo non credo; penso che l’aspirazione che abbiamo è sempre uguale, anzi ancora più forte. È una naturale predisposizione che l’uomo dovrebbe avere. Le complicanze sono sempre maggiori, sono complicanze di tipo soprattutto pratico nel senso che altre generazioni hanno avuto molte più opportunità di quelle che ci sono adesso. In quest’ultimo album c’è un pezzo, La Casa Di Mio Padre, con l’idea della casa come di un sogno buono a cui la gente di altre generazioni aspirava. Un’aspirazione naturale. Questa cosa oggi non è più possibile per le nuove generazioni: il senso di precarietà ti castra anche e ti costringe ad accettare delle situazioni che sono assolutamente in bilico, che da un lato può avere un aspetto positivo, dall’altro ti impedisce di essere molto più libero di quello che potresti e che vorresti.
Se dovessi definire quest’ultimo lavoro, lo vedresti come un punto di partenza o un punto d’arrivo?
Probabilmente è entrambe le cose, come sempre quando fai un album, tanto più di inediti, pensato per così tanto tempo rispetto al solito. Dietro l’album c’è un mio suono che ormai negli anni è andato maturando e mi contraddistingue, anche nel tipo di scrittura, e che forse adesso è arrivato alla sua espressione migliore. Da quel punto di vista quindi si potrebbe considerare un punto di arrivo. Però non lo sai mai, quando per esempio finisci di scrivere un disco dici: «Ok, adesso basta» sei talmente stremato emotivamente per cui non riesci a pianificare quello che sarà il futuro. Però a me piacerebbe molto fare un disco chitarra, voce e armonica, semmai continuerò a far dischi, perché in questo mondo non si può mai dire. Tornare da dove son partito, fare quindi il mio Nebraska per restare in argomento.
Quindi un arrivo per poi ripartire… Che rapporto hai tu con Internet? Credi che abbia aiutato la musica o che l’abbia rovinata come molti sostengono?
Non penso che l’abbia rovinata: penso che la parte positiva comunque vinca, se usato in maniera intelligente in termini di comunicazione. La rovini nel momento in cui diventa un calderone dove tutto è uguale a se stesso, dove l’importante diventa contare quanti ‘mi piace’ hai su Facebook. Però di contro, ti da la possibilità di comunicare con la gente che ti è veramente vicina e quindi, messi su una bilancia, sono più i pro. Io non sono un grande smanettone, lo faccio per quello che riesco, ho una persona che mi è vicina che lo fa molto meglio di me, mi aiuta a farlo, però è anche vero che i ragazzi di oggi che non riescono a fare i dischi, non riescono a venderli, non hanno gli spazi dove suonare, non hanno canali per potersi promuovere, perché le radio passano solo spazzatura e in televisione non fanno altro che i talent, hanno quel canale che può anche essere una possibilità per entrare in comunicazione con realtà che altrimenti non avresti. Per me è ovviamente il futuro… Il live è la rete, che cos’altro puoi avere?
Cosa pensi, dunque, dei talent?
Penso che siano onestamente una grande porcheria per la semplice ragione che se arrivasse Dylan per andare a un talent, gli direbbero che non si capisce bene quello che scrive e che è stonato e ho fatto volutamente l’esempio di uno dei più grandi artisti del ‘900. Non c’entra niente con la musica. Sapere più o meno cantare in maniera buona o essere ammiccante su un palco è una cosa che non c’entra nulla con l’essere un artista.
Il tuo ultimo lavoro coincide con il tuo venticinquennale di carriera. Cosa rimpiangi di non aver fatto nella tua carriera e nella tua vita e cosa invece hai fatto che non avresti voluto fare?
Non è questione di rimpianti; fai degli errori è evidente, fai delle mosse giuste e delle mosse sbagliate. Probabilmente io ho cominciato a dire tante cose che pensavo in momenti in cui credevo di avere la possibilità di dirlo e quindi ho pestato i piedi a qualcuno. Considerando quella che era la mia idea di musica e il valore che gli davo avrei dovuto acquisire più ‘potere’ prima di poterlo fare. Per il resto sono sempre stato parecchio innocente in quello che facevo, sono sempre stato me stesso, non sono mai stato un paraculo, non lo so fare. Ho fatto i miei errori e tante cose che, tornassi indietro, rifarei in maniera diversa come qualunque essere pensante secondo me. Dire: «Se tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto» è una colossale stronzata. L’unica cosa che salvo di tante cose, anche degli errori che ho fatto, è che li ho fatti in maniera pulita, li ho fatti in maniera innocente. Non ero uno che faceva calcoli, non sono uno che è capace di farli, non riesco a farlo nemmeno adesso che ho cinquant’anni.
ALEX PIERRO
_______________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
‘L’altra Faccia della Musica‘ è un appuntamento nel quale incontriamo alcuni tra gli esponenti più importanti del panorama musicale italiano che, con il loro lavoro spesso dietro le quinte, ma non per questo secondario, hanno contribuito – e continuano a contribuire – a rendere grande la musica italiana.
Una carrellata su tutte quelle figure che si occupano di musica: a partire dal progetto musicale, procedendo in tutte le fasi di strutturazione, divulgazione, fruizione e critica, siano esse produttori, giornalisti, manager, avvocati e, perché no, artisti.
Una sorta di radiografia su tutti i mestieri che gravitano intorno all’evanescente mondo della musica, per dare una visione più ampia su cosa c’è dietro a un successo e a una carriera discografica.
Insomma, proveremo a cercare di farci svelare qual è ‘L’altra Faccia della Musica‘.
PER SEGNALAZIONI E CONTATTI: ALEX PIERRO – pierro@hotmail.it – 347.9703822