Emergenza sanitaria, contagi, pandemia. Un periodo oscuro per la nostra società, in cui sprazzi di luce sul virus sconosciuto sono emersi grazie ai numerosi cronisti che con passione, competenza e sacrificio ogni giorno hanno raccontato agli italiani pericoli ed evoluzioni del contagio. Mai come oggi è emersa l’importanza dell’informazione quale valore irrinunciabile a garanzia dei cittadini. Non riteniamo fuori luogo definire i giornalisti “testimoni della verità”. E non possiamo non azzardare un parallelo: anche Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, assassinati il 20 marzo 1994 a Mogadiscio erano testimoni della verità e forse per questo hanno perso la vita. Freddati nell’autovettura su cui viaggiavano – accompagnati dall’autista Abdi e dal vigilante armato Nur entrambi scampati all’agguato – tornavano da Bosaso, a nord della Somalia, dopo una intervista al sultano della città Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli anni Ottanta. Ilaria stava conducendo una inchiesta su un probabile traffico di armi e di rifiuti tossici, con supposte complicità di istituzioni e servizi segreti italiani. L’ipotesi su cui si fondava tale indagine giornalistica, era riferita a un traffico internazionale di scorie tossiche prodotte nei Paesi industrializzati e dislocate in alcuni siti africani, in cambio di tangenti e armi scambiate con i gruppi politici locali. Nel novembre precedente l’assassinio della giornalista era stato ucciso, sempre in Somalia e in circostanze misteriose, il sottufficiale del Sismi Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano. Elementi inquietanti, come inquietante è il quadro riferito al brutale omicidio: depistaggi, inchieste finite nel nulla, presunti innocenti incriminati come veri colpevoli, sostituzione delle figure di scorta dei giornalisti all’ultimo minuto, documenti smarriti, occultati, lotte in Procura e valzer di magistrati incaricati dell’indagine. E la forza tenace di una mamma, Luciana, che fino all’ultimo ha cercato la verità senza approdare a nulla. Ma torniamo all’azione giudiziaria. Inizia con la sentenza di condanna definitiva del Tribunale di Roma a 26 anni di reclusione dell’unico indagato nel processo: il somalo Hashi Omar Assan. Lo stesso che dopo 19 anni di carcere viene assolto “per non aver commesso il fatto”, sulla base di evidenze emerse da un’inchiesta giornalistica. Non è casuale quindi la convinzione della famiglia Alpi che ha sempre creduto nell’innocenza di Assan. I colpi di scena non si esauriscono con tale assoluzione. Nel 2018 arriva la prima richiesta di archiviazione della Procura di Roma. Nella primavera del 2019 la seconda richiesta di archiviazione sempre presentata dalla Procura di Roma, a cui segue una mobilitazione senza precedenti, con manifestazioni e raccolte di firme su piattaforme on-line. Si fa sempre più strada l’idea del depistaggio e, a favore di tale tesi emergono elementi inconfutabili. Noi non archiviamo, noi non dimentichiamo. Questa l’invocazione dei colleghi della Fnsi, Federazione nazionale della stampa Italiana e dell’Usigrai – sindacato unitario dei giornalisti la prima, sindacato dei giornalisti Rai il secondo – che si sono costituite “parti offese” nel procedimento penale. Le recenti novità, per cui è auspicabile una prosecuzione dell’indagine, arrivano da sostanziosi elementi emersi nello scorso ottobre, quando il gip di Roma Andrea Fanelli ha respinto la terza richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Roma e ha disposto ulteriori accertamenti investigativi effettuati nell’arco di sei mesi. Su quanto emerso nello scorso mese di marzo, in una data quasi coincidente con il tragico anniversario dell’omicidio, è intervenuto Giulio Vasaturo legale della Fnsi che sostiene: “confidiamo che in questi sei mesi la Procura di Roma abbia raccolto elementi utili a chiarire una volta per tutte lo scenario reale del duplice omicidio e soprattutto, aspetto fondamentale, tali da riaprire un’inchiesta che taluni vorrebbero chiusa al più presto, senza colpevoli”. Se da una parte si tira un sospiro di sollievo nel vedere non gettate alle ortiche evidenze macroscopiche, dall’altra non si può non provare una sottile inquietudine nell’udire il legale citare quei “taluni” che aspirerebbero alla chiusura dell’inchiesta senza colpevoli. Nel Paese dei grandi misteri irrisolti, che gode comunque di una stampa che non si inchina di fronte a supposti poteri forti – e l’impegno professionale dimostrato nel corso dell’epidemia Covid-19 lo ha dimostrato – tale inquietante scenario non ce lo possiamo proprio permettere. Giorgio e Luciana Alpi e, in primo luogo Ilaria e Miran, ci osservano tutti da un altrove e attendono che si faccia al più presto piena luce su uno dei grandi misteri di questa oscura Italia.