Tra pochi giorni, il 4 giugno, sarà il settantunesimo anniversario della Liberazione di Roma: quel 4 giugno 1944, terminavano i mesi del terrore nazista nell’ Urbe, della continua caccia ad ebrei, antifascisti e qualsiasi altro possibile oppositore dell’ Asse, del discutibile attentato dei GAP a Via Rasella e dell’inumana rappresaglia delle Ardeatine, di rastrellamenti spietati come quello del Quadraro (maggio ’44) e dei giorni trascorsi nella fame nera.Del clima di allora, ho potuto parlare a fondo, a suo tempo, con diretti protagonisti di quelle vicende: come Leo Solari ( 1916-2004), comandante partigiano, stretto collaboratore del socialista Eugenio Colorni (autore, con Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, dello storico “Manifesto” di Ventotene del 1941 “Per un’Europa libera e unita”), caduto, pochi giorni prima della Liberazione, per un’imboscata nazifascista presso Piazza Bologna. O Peter Tompkins (1919-2007), leggendario agente segreto USA,
giornalista e scrittore, che proprio nella Roma del ’43- ’44, su incarico dell’ OSS americano (l’antenato della CIA), aveva creato un’efficientissima rete di informatori per gli Alleati, caduti poi, in gran parte, alle Ardeatine e a La Storta.Ma la persona di cui voglio parlare stavolta è un uomo che nel 1943-’44 era bambino, classe 1939: eppure ha avvertito da vicino l’alito della ferocia nazista, ma anche il vento della solidarietà umana.
Gabriele Sonnino – che incontro nel cuore del Ghetto romano, allo storico bar “Totò” da sempre punto di ritrovo per tanti, nel quartiere dove per decenni ha vissuto e lavorato, con un’apprezzatissima cioccolateria, nel 1943 aveva 4 anni, e viveva coi genitori e la sorella Sara, maggiore d’un anno, in una baracca della Magliana. Nel caos dell’occupazione nazista di Roma, i Sonnino trovano scampo all’ Isola Tiberina, dove, all’ospedale “Fatebenefratelli“,il Priore cattolico Fra’ Maurizio Bialek, polacco, correndo grave pericolo, da’ rifugio ad ebrei, antifascisti e persino fascisti disertori (l’ospedale entrerà infatti nella storia per la coraggiosa iniziativa di Bialek, del primario, prof.Giovanni Borromeo,futuro “Giusto tra le Nazioni” per Israele, e dei medici loro collaboratori: che per mesi befferanno i nazisti tenendo ricoverati, sotto false generalità, diversi ebrei, ufficialmente affetti da un inesistente “morbo di K.”, ironico riferimento a
Kesselring, comandante generale delle forze tedesche in Italia, o a Kappler, capo della polizia nazista nella Roma occupata).Ma quasi subito arriva la notizia d’ un’imminente ispezione delle SS: così Gabriele e la sua famiglia riprendono a vagare per Roma,sinchè nel Ghetto, a Palazzo Costaguti, un insospettato “Schindler in camicia nera”, il portiere dello stabile,consente che si nascondano in una macchina abbandonata nel cortile.
Ma un giorno, il destino gioca improvvisamente le sue carte: Gabriele e Sara, usciti per strada a giocare, vengono afferrati da un soldato nazista e condotti verso una camionetta.Quand’ecco materializzarsi uno sconosciuto, che senza esitare, e mostrando in pieno il crocefisso che porta al collo, si fa passare per il padre dei due bambini,glieli strappa di mano e a suon di ceffoni li porta nel suo vicino negozio. “Quell’uomo, cui tuttora devo la vita mia e di mia sorella“, precisa commosso Gabriele, “era Francesco, lattaio in Via del Portico d’Ottavia ( proprio un bar- latteria di quella strada, tra l’altro, appare piu’ volte nel capolavoro di Carlo Lizzani “L’oro di Roma“, N.d.R.). Ma dopo la guerra avevo perso ogni traccia di lui; sinchè, due- tre anni fa, da me in negozio si presentò una signora, informandomi d’ essere figlia proprio di Francesco. Ma questa donna ignorava tutto: suo padre non l’aveva mai messa al corrente del suo atto d’eroismo,
in quel lontano giorno del 1943“.
Sono storie come questa – ripetutesi, “mutatis mutandis”, ogni qualvolta dittature o eserciti invasori hanno offeso spudoratamente la dignità dell’uomo, cercando di trasformare gli uomini in “carnefici-zombie”, ma incontrando inaspettate resistenze, dalla Budapest del ’56 al Rwanda del ’93- ’94, dalla Bosnia del ’91-’95 al Kosovo del ’98- ’99 – che, nonostante tutto, continuano a far sperare nell’uomo. A farci capire che, sia pur in varia misura e con modalità diverse, è sempre possibile dire “No”. Spesso senza che, poi, chi è stato protagonista di gesti del genere senta il bisogno di parlarne agli altri.Come il lattaio di Via del Portico d’Ottavia; come Giorgio Perlasca, l’eroe silenzioso della “Banalità del bene”, nella Buapest del ’44- ’45.
di Fabrizio Federici