«La lettura del giornale è la preghiera del mattino dell’uomo moderno». Quanto detto da Hegel vale anche per il telegiornale? A me piace pensare di sì, perché in effetti, se per molte tradizioni spirituali, la preghiera è soprattutto la capacità di relazione e apertura verso “l’altrove”, il telegiornale non rappresenta, forse, un moderno rituale laico di connessione mattutina col mondo – di cui il telegiornalista è l’officiante – celebrato nell’intimità delle nostre cucine tra le note vanigliate di biscotti e caffellatte?
Adriana Pannitteri non ha bisogno di presentazioni. Da molti anni entra nelle nostre case e il suo «buongiorno!» – dato in diretta già dalle prime luci dell’alba dagli studi del Tg1 – è un caffè espresso che ci desta dal torpore di sogni interrotti introducendoci nel nuovo giorno.
Romana di nascita ma siciliana d’origine, porta i segni di queste due realtà nei tratti del suo carattere e della sua personalità. È tenace e caparbia, come sanno esserlo gli isolani, ma anche versatile e allegra come è ogni vero romano che, abitando questa città impara a sopravviverle, abituandosi ad amarne pregi e difetti. Anche le sue esperienze professionali sono mutevoli e si tingono dei colori forti delle emozioni, come quelli della terra siciliana delle sue radici, in cui ha ambientato alcune delle storie raccontate nei suoi libri, nei quali affronta sempre temi complessi d’impegno sociale e civile.
La sua curiosità e l’amore per il giornalismo la conducono in pochi anni dalla carta stampata alla televisione, per passare dalla cronaca nera, alle rubriche di cultura e spettacolo, alla conduzione di Uno Mattina, al Tg1, al ruolo di vice caporedattore (che ricopre ancora oggi), sino ad approdare alla saggistica e alla narrativa; mondi questi ultimi nei quali dà prova, non solo, di comprendere la complessa interdipendenza dei fenomeni sociali, ma anche, di sapersi misurare con essi, restituendoci – attraverso la scrittura – una visione originale e mai scontata dei diversi spaccati di vita sui quali getta, di volta in volta, il suo sguardo da giornalista d’inchiesta, scrittrice, donna e mamma.
Ha scritto di madri assassine, di eutanasia e testamento biologico, di ospedali psichiatrici giudiziari e anche di femminicidio con il suo primo romanzo “Cronaca di un delitto annunciato” pubblicato nel 2017 e ispirato a una storia vera e torna in libreria per approfondire il drammatico tema della violenza con “La forza delle donne”, ultimo prezioso lavoro destinato proprio ai lettori tra gli 11 e i 14 anni, in uscita a novembre.
– Come scegli questi argomenti?
Potrei dire che questi argomenti sono, per circostanze quasi incredibili, drammaticamente presenti nella cronaca e quindi ci convivo tutti i giorni. Non si può parlare di violenza tra le persone se non si cerca la radice di tutto questo. Non amo la cronaca gridata, quella che trasuda sangue e si appaga di facili giudizi. Da anni la mia cifra è approfondire le ragioni, perché solo in questo modo si può comprendere per prevenire. Quando si grida al mostro o alla cattiveria del branco senza andare oltre si compie un’operazione di facciata che, a mio giudizio, non ha senso e rischia solo di renderci diffidenti e pieni di pregiudizi.
– Com’è stato da madre scrivere “Madri assassine, diario da Castiglione delle Stiviere”?
E’ stata una delle esperienze più difficili della mia vita e quella che ha segnato il mio ingresso nel mondo dei libri. Si era tanto parlato di Cogne e Anna Maria Franzoni – che era stata accusata di aver ucciso il figlioletto Samuele – era diventata una sorta di personaggio da avanspettacolo. Ho riflettuto molto, poi ho capito che dietro quella vicenda esisteva un mondo dimenticato che era quello delle tante madri che giungono a uccidere i loro figli e di cui non ci eravamo mai occupati. Mi sono avvicinata al mondo della psichiatria e ho iniziato a collaborare con un gruppo di lavoro che mi ha aiutata a esplorare che cosa accade nella mente delle persone e ho capito che non avevo a che fare con madri cattive ma con madri fondamentalmente spezzate. Certo, dialogare con loro e sentire attraverso quale percorso apparentemente lucido erano giunte a compiere quel gesto, è stato agghiacciante. Ero madre solo da qualche anno e non è stato semplice. La verità è che non riusciamo a cogliere i segni della malattia, anzi ne abbiamo paura. La solitudine di queste donne, prima e dopo, era anche un monito per tutti noi. Viviamo in una società nella quale è più semplice pensare che alcune cose non ci riguardino. Un’indifferenza complice, potrei dire provocatoriamente.
– Come si possono abbattere gli stereotipi sulla maternità? Da dove si potrebbe partire?
Intanto partiamo dal presupposto che essere madre, soprattutto oggi, con le sfide che pesano sulle donne è estremamente complicato. Gli stereotipi possono uccidere. Non credo ci sia madre che all’indomani di una maternità non si senta giudicata per il proprio aspetto fisico e non debba in qualche modo essere comunque perfetta. Ma il problema è che la maternità, al contrario di quanto si crede, non è un fatto istintivo e la nascita di un figlio costringe la donna a confrontarsi, in modo inconscio, con quello che è stato il rapporto con la propria madre. E quindi la persona che ci ha accuditi è stata solo colei che ha dato latte e ha cambiato il pannolino o è stata capace di dare affetto reale? Ecco, tutto questo vissuto torna a livello profondo quando c’è una nascita e non sempre le cose funzionano. Alcune donne si frammentano e arrivano a compiere il gesto più terribile, ovvero l’uccisione del proprio stesso figlio.
– Nel 2007 ti sei occupata di testamento biologico scrivendo “Vite sospese” e, qualche anno dopo, con Beppino Englaro della storia di sua figlia Eluana con il libro “La vita senza limiti” a cui Marco Bellocchio con il film “Bella addormentata” si è liberamente ispirato. Raccontaci questa esperienza straordinaria.
Si sono stati incontri ed esperienze straordinarie. Con Mina Welby per il primo libro che si interrogava sulle scelte delle persone legate al fine vita e poi con Beppino Englaro che ringrazio per la sua amicizia unica e per tutto quello che mi ha insegnato. Anche quella è stata una sfida difficile sempre perché mi dovevo confrontare con il mio essere madre. Beppino mi consentì di vedere sua figlia. Credo sia stata l’esperienza più drammatica della mia vita. Capisci che amare significa anche lasciar andare e comprendi che la dignità e il rispetto per una persona vanno oltre il desiderio di tenerla sempre con te ad ogni costo. Englaro è stato accusato di cinismo e egoismo ma ha pagato un prezzo personale altissimo per la sua battaglia che era una battaglia di profonda civiltà. La sua forza è un esempio per tutti.
– Nel 2013 con il saggio “La pazzia dimenticata, viaggio negli opg” sei andata nuovamente a cercare storie di disagio, dolore e disperazione per fare luce su una realtà a cui spesso non si dà il giusto risalto: gli ospedali psichiatrici giudiziari. Cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
Volevo proseguire il mio percorso di ricerca sulla mente umana. Si discuteva di chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari attraverso il percorso disegnato dal sen. Ignazio Marino. Come sappiamo molti di quei luoghi nascondevano soltanto la malattia al resto del mondo ed erano ghetti senza speranza con centinaia di derelitti letteralmente reclusi e abbandonati per anni. C’erano eccezioni, come Castiglione delle Stiviere, dove si tentava comunque un percorso di recupero e anche negli altri ospedali psichiatrici giudiziari medici e operatori facevano il possibile con tanta buona volontà e pochi mezzi. Ma le vite di quelle persone che avevano compiuto talvolta delitti orribili o di cui semplicemente nessuno si preoccupava più, facevano venire i brividi. Ora gli opg sono stati chiusi e quelle persone sono state destinate alle Rems, residenze alternative più piccole e all’apparenza più civili. Ma sono convinta che il percorso di comprensione e studio della malattia mentale che ha talvolta conseguenze tragiche per se stessi e per gli altri non sia stato sufficientemente approfondito. Resta un grande tabu, una ferita irrisolta in un eterno conflitto tra l’idea che la malattia mentale non esista o che al contrario esista e non sia affrontabile perché geneticamente connessa alla natura umana. Ecco io al contrario credo che sia possibile fare diagnosi e cura nella gran parte dei casi.
– Poi è arrivato “Cronaca di un delitto annunciato”, il tuo primo romanzo, nel quale affronti l’allarmante fenomeno del femminicidio. Qualcosa è cambiato?
Il romanzo mi ha dato la possibilità di liberare la scrittura e di esprimere ancora meglio i miei sentimenti. Volevo creare occasioni di riflessione. E’ stato un racconto ispirato a una storia vera ma sedimentata per anni, potrei dire con una gestazione difficile perché descrivere il femminicidio nella testa di un uomo significa scendere davvero nel baratro. Ed è evidente che qualcuno poteva pensare che io volessi creare alibi o giustificazioni, cosa che non mi appartiene. La realtà di quella storia e la fantasia si sono mescolate e il romanzo ha avuto la fortuna di essere presentato anche nelle scuole a migliaia di studenti che hanno iniziato a fare domande sul rapporto uomo-donna. Non posso immaginare che tale relazione o più in generale il rapporto tra persone che dicono di amarsi sia solo conflittuale e violento. Dobbiamo sforzarci di creare generazioni capaci di reggere il conflitto, le sconfitte e le sfide che fanno parte della vita.
– Perché oggi ti rivolgi ai più giovani?
Perché, come dicevo, sono il futuro. Sono la possibilità della nostra crescita e la speranza di una società migliore. Non possiamo abbandonarli anche se facciamo fatica a comprenderli.
– Per arrivare ai più giovani hai dovuto inevitabilmente semplificare, ma come diceva Munari: «Complicare è facile, semplificare è difficile. Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’essenza delle cose e comunicarle nella loro essenzialità» senza banalizzare, come ci sei riuscita?
Il libro in uscita a novembre è il mio primo tentativo di rivolgermi ai giovani senza la mediazione di figure professionali che comunque nelle scuole sono state di fondamentale importanza. Intendo dire che “La forza delle donne” si può leggere anche da soli in una riflessione intima e personale. Mi sono ispirata anche in questo caso a una storia vera che riguarda il femminicidio di una giovane donna siciliana ma ho attraversato la vicenda proprio attraverso gli occhi di una adolescente. Se ci sono riuscita sarà il pubblico dei lettori a esprimere il proprio consenso. Ovviamente è una lettura per tutti, anche per gli adulti che spesso – mi spiace dirlo – hanno smarrito la capacità di ascoltare e mettersi in crisi. Oppure si smarriscono nell’impossibilità di affrontare essi stessi le sfide della vita.