4 agosto 2020 – Il bypass coronarico (CABG – Coronary Artery Bypass Graft) è il più comune intervento di cardiochirurgia, rappresenta circa il 25% del totale delle operazioni cardiochirurgiche. Viene eseguito a causa di occlusioni o stenosi (restringimenti) delle arterie coronarie, i vasi sanguigni che portano al cuore l’ossigeno e il nutrimento e consiste nel creare delle vie alternative per permettere al sangue di arrivare correttamente al cuore.
Nel Lazio sono oltre 1300 i pazienti ricoverati con necessità di bypass aortocoronarico (Dati Agenas PNE2019). Di questi circa l’80% avviene in strutture della Capitale.
Dopo 10 anni di studi clinici è stato pubblicato un articolo scientifico sul “Journal of the American Medical Association” (JAMA), la più importante rivista medica degli Stati Uniti e tra le più rilevanti al mondo, grazie all’expertise, tra gli altri, di medici italiani.
Il dott. Giuseppe Nasso, responsabile dell’unità operativa di Cardiochirurgia ad Anthea Hospital, e il dott. Giuseppe Speziale, specialista in Cardiochirurgia all’Ospedale San Carlo di Nancy e all’ICC – Istituto Clinico Casalpalocco, entrambi a Roma, e responsabile delle Cardiochirurgie di GVM Care & Research, hanno infatti condotto uno studio internazionale multicentrico (in collaborazione con altre strutture ospedaliere) che si è rivelato una pietra miliare nella tecnica del bypass aortocoronarico.
Nato da una collaborazione medica internazionale, il team denominato “Radial Investigators” ha dimostrato come l’utilizzo dell’arteria radiale nel bypass aortocoronarico risulti estremamente vantaggioso rispetto all’utilizzo della vena grande safena.
I primi risultati dopo un follow-up di 5 anni furono pubblicati sul “New England Journal of Medicine” ed ora gli autori dello studio hanno dimostrato e pubblicato, a distanza di 10 anni dagli interventi, come utilizzare l’arteria radiale per il bypass riduca il rischio di sviluppare nuovi infarti e soprattutto il tasso di mortalità per cardiopatia ischemica nel tempo.
“Abbiamo concluso che questo approccio permette al paziente non solo di vivere meglio nel corso degli anni successivi, ma soprattutto di vivere più a lungo, questo perché si riduce l’incidenza di nuovi infarti e di essere sottoposto a nuove procedure di rivascolarizzazione miocardica – commenta il dott. Nasso –. L’arteria radiale, infatti, al contrario della vena safena, anche dopo tanto tempo rimane funzionante, mentre la vena grande safena tende purtroppo a chiudersi”.
Diversamente dagli altri muscoli, il cuore non si riposa mai e richiede un apporto di nutrimento costante. Un intervento cardiochirurgico di bypass aortocoronarico è un intervento al cuore definito salvavita. Uno dei centri di riferimento per lo studio è stato Anthea Hospital, struttura di Alta Specialità, che è tra i centri italiani all’avanguardia su questo tipo di intervento e nell’utilizzo delle tecniche minimamente invasive e robotiche, senza sternotomia e senza fermare il cuore, con l’enorme vantaggio di un rapido recupero post-operatorio.
“Un paziente sottoposto ad intervento di bypass aortocoronarico è un paziente che di fatto ha risolto la problematica in essere, ma è doveroso seguirlo anche nel post-operatorio, spiegandogli che deve eliminare tutti i fattori di rischio che lo hanno portato alla malattia, che possono essere il fumo, la pressione arteriosa alta, una dieta con un elevato contenuto di grassi insaturi, o anche elevati valori di colesterolo e trigliceridi. Se non si eliminano questi fattori di rischio, qualsiasi bypass nel tempo non sarà sufficiente a risolvere la patologia coronarica ma ancora peggio si avrà una progressione della malattia sulle altre coronarie”, conclude il dott. Nasso.