Vi presentiamo la lunga intervista del giornalista Aldo Cazzullo al cardinale Camillo Ruini per il Corriere della Sera. Il prelato ha annunciato nel corso della chiacchierata un lento e costante declino della Chiesa cattolica, dovuto anche alla corruzione che spesso viene collegata alle figure clericali presenti.
Ruini ha avuto anche modo di discutere col giornalista del referendum parlamentare del 20 settembre, di Papa Francesco e dell’attuale situazione politica italiana.
Anna Catalano
Cardinale Ruini, il nuovo libro di Massimo Franco parla del declino politico-culturale della Chiesa italiana. Lei è d’accordo?
«Sì, purtroppo. La dimensione culturale è strettamente legata alla fede e la dimensione politica ha un’ovvia connessione con quella culturale. Questo declino non può non preoccupare. Occorre reagire: un compito che spetta ai laici credenti, ma anche alla Chiesa come tale. Oggi è più difficile di qualche anno fa; ma non è impossibile».
Lei ha la sensazione che i temi storicamente cari ai cattolici, a cominciare dalla difesa della vita e della famiglia, non facciano più parte dell’agenda politica?
«Direi che ne fanno parte assai meno di prima. Ma non sono spariti, e nemmeno lo potrebbero: nel contesto dell’Occidente contemporaneo sono inevitabilmente oggetto di dibattito. È di pochi giorni fa una buona notizia, almeno dal mio punto di vista: la Santa Sede ha ribadito con forza il rifiuto dell’eutanasia».
Ma l’emergenza Covid non ha restaurato la centralità, se non della Chiesa, della missione dei suoi sacerdoti?
«Per assistere le persone colpite dalla pandemia hanno perso la vita, accanto a tanti medici e infermieri, anche molti sacerdoti e religiose. La Chiesa italiana si è confermata anche in questa occasione una Chiesa vicina alla gente».
In questi mesi abbiamo avuto un po’ tutti paura della morte. Lei ci ha pensato? Ha avuto paura? Siamo usciti dalla fase acuta della pandemia più forti, o almeno più consapevoli?
«Ormai da anni alla morte penso ogni giorno. Anzi, più volte al giorno, soprattutto quando prego. La morte mi fa sicuramente paura. Ma accanto alla paura, e più forte della paura, sento in me la speranza nell’amore e nella misericordia di Dio. La fede in Dio cambia in profondità il nostro rapporto con la morte: oggi ne parliamo troppo poco. La pandemia ci ha fatto riflettere sulle cose che contano veramente. Speriamo di non dimenticarcene troppo presto».
Che cos’ha provato nel vedere i portoni chiusi delle chiese?
«Li ho visti solo in tv: esco raramente di casa. Ne ho avuto un’impressione triste, mitigata dalla fiducia che il Signore possiamo trovarlo ovunque. Anzi, lui per primo trova sempre la strada per incontrarci».
Torniamo al declino della Chiesa. Cosa dovrebbero fare i cattolici per contare di più, sia nella politica che nella discussione culturale? Come si ferma la scristianizzazione?
«Dobbiamo avere più fiducia nella bontà e nell’attualità di una cultura che abbia il cristianesimo alle sue radici. Un rapporto sano e fecondo tra cattolici e politica passa attraverso la mediazione della cultura. Poi naturalmente occorrono capacità politiche e un grande amore per la libertà. Fermare la scristianizzazione è molto difficile. Non si può farlo solo a livello culturale e tanto meno politico. Decisiva è una testimonianza cristiana autentica, personale e comunitaria. In ultima analisi, decisiva è la grazia di Dio».
Non solo Venezia, Torino, Genova, ma persino Milano oggi non ha un cardinale. Non è anche questo un segno di declino?
«Cent’anni fa era italiana la maggioranza assoluta dei cardinali. Con Pio XII è iniziata l’internazionalizzazione, più in sintonia con la cattolicità o universalità della Chiesa, che con Papa Francesco sta conoscendo un ulteriore sviluppo. Naturalmente deve esserci un limite anche a questo processo. Non sarebbe bene che l’Italia fosse sottorappresentata. Anche perché Roma, sede dei successori di Pietro, è la capitale d’Italia».
Qualche cardinale straniero ha teorizzato che il peso degli italiani dovesse diminuire: «Meglio venire da Tonga che da Milano». È diventato un problema essere italiani?
«Non credo che i vescovi italiani avvertano un problema del genere. A ogni modo, la nazionalità sia italiana sia non italiana non deve essere né una colpa né un titolo di merito. Ce lo chiede la natura stessa della Chiesa».
Qualche guaio però in Curia gli italiani l’hanno combinato. Che idea si è fatto del caso Becciu?
«Non ho elementi per una mia valutazione personale. Vorrei dire però che i mezzi di comunicazione sono comprensibilmente attenti alle vicende negative; ma esiste nella Chiesa una moltitudine di persone e di comportamenti che sono invece decisamente positivi, e che la gente conosce perché ne fa esperienza. Per questo la Chiesa è sopravvissuta nei secoli alle sue peggiori crisi».
Però nella Chiesa la corruzione esiste.
«La corruzione, specialmente in alto loco, è una delle più gravi piaghe della Chiesa. Da giovane pensavo che si trattasse di un problema del passato ormai remoto; ma mi illudevo. Continuo a sperare che ne usciremo, con l’aiuto di Dio e facendo ciascuno la propria parte».
Non abbiamo un Papa italiano da quasi mezzo secolo. Essere italiano è ormai un handicap per diventare Papi?
«Penso proprio di no. Direi piuttosto che non è più un vantaggio, o addirittura un pre-requisito; ma è bene che non lo sia più. Papa deve essere eletto colui che è ritenuto più degno e idoneo, indipendentemente dalla nazionalità».
Esiste un movimento conservatore internazionale contro Francesco?
«In qualche modo, esiste; ma ha varie accentuazioni e sfaccettature. Solo pochi possono davvero essere considerati “contro” Papa Francesco: ad esempio, non tutti coloro che hanno formulato qualche critica con intenti costruttivi».
C’è spazio oggi in Italia per un partito dei cattolici? Magari al seguito del premier Conte…
«Non vedo uno spazio del genere. I cattolici devono puntare sui contenuti dell’azione politica, individuati anche alla luce di una visione cristiana dell’uomo e della società; e devono collaborare con chi, cattolico o no, condivide tali contenuti. Oggi purtroppo in larga misura manca proprio l’attenzione a una visione cristiana».
Lei un anno fa disse al Corriere che con Salvini bisognava dialogare. L’hanno molto criticata per questo. Si è pentito? Ora Salvini appare un po’ ridimensionato…
«Non mi sono pentito affatto. Dialogare bisogna. A Salvini e a Giorgia Meloni, che adesso meritatamente è sulla cresta dell’onda, vorrei dire che se vogliono fare il bene del Paese e arrivare al governo devono sciogliere il nodo dei loro rapporti con le forze che sono stabilmente alla guida dell’Unione europea».
Lei cos’ha votato al referendum sul taglio dei parlamentari? È stata una vittoria dell’antipolitica?
«Ho votato No. È stato un successo del desiderio, comprensibile ma ingenuo, di ridurre i costi della politica».
Ora si parla del ritorno a una legge elettorale proporzionale. Lei cosa ne pensa?
«È una proposta sbagliata e soprattutto pericolosa. Fin dall’inizio la nostra Repubblica ha avuto seri problemi di governabilità. Quando De Gasperi aveva la maggioranza assoluta dovette affrontare una crisi di governo all’anno, perché non solo ogni partito ma ogni corrente si sentiva libera di pretendere sempre più spazio. È facile immaginare cosa accadrebbe adesso, quando nessuna forza politica può aspirare all’autosufficienza».
Sarebbe meglio una legge maggioritaria?
«Penso di sì. A mio parere, il maggioritario è stato il principale tra i pochi progressi della Seconda Repubblica».
Cosa ci aspetta per i prossimi mesi? Si annuncia un Natale difficile, con la distanza sociale, la paura per la seconda ondata…
«L’Italia era in difficoltà già prima del coronavirus. Speravamo che la pandemia fosse in via di superamento e che con l’aiuto dell’Europa potessimo riprenderci abbastanza alla svelta. Adesso la minaccia del coronavirus sta di nuovo montando, in Italia ma soprattutto nei Paesi intorno a noi. È difficile fare previsioni. La nostra gente finora ha reagito in modo molto positivo, eccezioni a parte. È il momento di impegnarci tutti ancora di più. Il Bambino che a Natale viene tra noi rimane la nostra più grande speranza, anche per i problemi di oggi».
I bambini e i ragazzi rischiano di pagare il prezzo più alto. Per decenni i giovani italiani si sono formati negli oratori. Oggi la Chiesa cosa può fare per parlare con loro?
«Gli oratori sono ancora un ottimo luogo di formazione. Il problema è che ci sono troppi pochi sacerdoti giovani. Bisognerà affiancarli con dei laici; possibilmente anche loro giovani. Le più difficili sfide per la Chiesa riguardano oggi la fede delle nuove generazioni e le vocazioni al sacerdozio. Il punto sta nel riuscire a esprimere i contenuti della fede nel linguaggio dei giovani, raggiungendo i loro interessi».
Fonte: Corriere della Sera