“Il mestiere di pittore in senso tradizionale, esercitato con i materiali e gli strumenti classici, presenta troppe implicazioni perché possa essere praticato da un dilettante o da chi rifiuta le regole. La pittura, contrariamente a ciò che pensano i suoi detrattori, esige rispetto, amore e piena consapevolezza dei mezzi espressivi”. Così si esprime Sigfrido Oliva in una delle sue note, “La falsa modernità dell’arte”. In poche parole sono racchiusi alcuni dei principi cardine di un’attività prolifica che accompagna quest’artista sin dalla giovanissima età.
La cordialità che contraddistingue il Maestro ci accoglie presso la Sala Espositiva di Via Ancona a Ladispoli, dove venerdì 8 agosto è stata inaugurata la personale organizzata dal Delegato all’Arte Filippo Conte, che sarà visibile fino a martedì 18 agosto.
In esposizione una selezione di ritratti ed alcune delle vedute di Roma, tema ricorrente nella pittura di Oliva, che conduce il visitatore alla scoperta di alcune delle architetture più maestose della capitale, dalla cupola di San Pietro a quella di Sant’Andrea della Valle, attraverso differenti scorci e raffinati giochi di luce.
Tra le peculiarità delle opere in mostra quella che l’artista stesso definisce la “nebbiolina”, un leggero velo che cela morbidamente i contorni dei soggetti lasciandone emergere la forza espressiva ed una straordinaria intensità poetica. “La ‘nebbiolina’ deriva da Leonardo Da Vinci –illustra Oliva- che non usava la prospettiva scientifica, ma quella che ha chiamato aerea, che fa parte della sua tecnica dello sfumato, ossia sfumare generalmente i bianchi e neri, con dei tamponi”. “Mentre lavoro –continua- quando la pittura è ancora fresca, tampono, con degli strumenti fatti da me, i contorni delle figure, portando la pittura che sta in un’architettura verso l’esterno e quella dell’esterno verso l’interno, pulisco e tampono di volta in volta e tamponando in questo modo ottengo delle velature con una specie di sfumato che crea la nebbiolina che si vede nei miei quadri”.
Numerose le tecniche sperimentate dall’artista che ribadisce il suo amore per il disegno: “Io amo moltissimo disegnare -commenta- diceva Carlo Levi, in un occasione di una mia mostra del ’69, che nel disegno è implicito il colore, quando il disegno è modulazione di un paesaggio o di una figura, allora c’è il colore, si percepiscono nel bianco e nero anche i gialli, i rossi, i rosa o comunque le mezze tinte, i mezzi toni”. “Utilizzando matite nere di varie morbidezze –prosegue- si possono ottenere degli effetti bellissimi, tutte le ombre e le luci che si vuole con l’aiuto del sentimento, la partecipazione ed una mano esercitata si può catturare ciò che si vuole”.
Messinese di nascita e cresciuto nella cittadina Barcellona Pozzo di Gotto, l’amore per l’arte si palesa in giovanissima età. “Già a dieci anni, una stanza del secondo piano della nostra casa era diventata il mio atelier. Lì dipingevo non solo con i cavalletti e altri supporti, ma anche sulle pareti, un modo di manifestarmi per il quale mia madre non mi ha mai rimproverato”. Intorno ai tredici anni frequenta una scuola comunale di disegno e pittura: “Dopo poco tempo ho notato che per me diventava una sofferenza ripetere i soggetti che mi davano da riprodurre, foglie o capitelli raffigurati sulle stampe, mi sembrava così meccanico e non riuscivo ad esprimere quello che io volevo ed ho lasciato la scuola. A 19 anni mi sono poi trasferito a Roma dove ho frequentato l’Accademia delle Belle Arti”.
L’arte esercita sin da subito un fascino veramente potente su di lui: “Da bambino prendevo il treno e andavo a visitare il Museo Nazionale di Messina per vedere le opere di Antonello Da Messina -aggiunge- davanti a quelle tavole mi sentivo trasportato, come innamorato”.
L’ispirazione dell’artista nasce dall’osservazione sì, ma anche e soprattutto dalle emozioni che un soggetto può suscitare. “Io mi innamoro delle cose che dipingo, ma devo provare qualcosa di forte prima di cominciare a dipingere -dice- Quando questo accade mi metto davanti al cavalletto e non esco più per settimane, ore, mesi”. Si tratta di un processo, come lui stesso spiega, che matura nel tempo. “Magari c’è stato un ‘colpo di fulmine’ trent’anni prima ed io, a distanza di anni, ritorno su quel paesaggio, su quella figura, su quella prospettiva perché voglio dipingere quell’immagine. C’è una gestazione interiore nel mio caso un po’ lunga, non è improvvisata”.
Diversi, nel corso della sua carriera, gli interventi sulla storia dell’arte. Su quella contemporanea dice: “Non bisogna avere i paraocchi, bisogna conoscere un po’ la storia non solo dell’arte, ma anche quella politica, sociale di quell’arco di tempo. Tutto quello che è successo dopo gli Impressionisti è un continuo sperimentare cose nuove. Questo qualche volta porta a dei successi e a periodi che raggiungono effetti grandiosi. C’è però anche tutta la zavorra che sta intorno alle grandi invenzioni, ai grandi maestri, che si accontenta di sperimentare tutti i giorni qualcosa pur di sembrare “alla moda”, perché il terrore di sembrare demodé oggi è un pericolo che corrono in tanti. Basta partire dall’orinatoio (Fontana) di Duchamp per renderci conto di cosa è accaduto dopo. Lui è stato un grande intellettuale, un grande artista, un grande maestro. All’improvviso ha preso un orinatoio l’ha rovesciato e l’ha presentato come opera d’arte, lì ha teorizzato che un oggetto qualsiasi trasportato in un luogo diverso da quello in cui è stato preso può diventare un’opera d’arte. Da lui in poi sono successe molte cose”.
Tra le anticipazioni delle prossime esposizioni di Sigfrido Oliva -che a novembre sarà con le sue opere a Zurigo- una mostra didattica che si svolgerà in primavera presso la Biblioteca Comunale di Ladispoli.