La simbologia dell’Inauguration Day arriva oltre oceano, ammonendoci.
La nuova amministrazione Biden, ancora una volta, si mostra abile nel conoscere le potenzialità dei codici comunicativi dell’arte e dei simboli.
Dalle perle indossate da Kamala Harris, simbolo di appartenenza alla “Alpha Kappa Alpha”, una delle più antiche confraternite afroamericane, di cui facevano parte molte donne, straordinarie attiviste per diritti civili come Rosa Parks.
Alla bibbia, sulla quale ha giurato la vicepresidente, usata da Thurgood Marshall, primo giudice black della Corte Suprema.
Alla giovane poetessa afro-americana Amanda Gorman, secondo la quale “La vittoria non sarà nella lama che ci divide ma nel ponte che ci porterà oltre le sfide”.
Fino alla scelta della first lady, Jill Biden, di accogliere nelle sale del Campidoglio un dipinto dell’artista nero Duncanson intitolato “Landscape With Rainbow“ (1859), che raffigura un paesaggio bucolico, con un arcobaleno che simboleggia il rinnovamento e la speranza, realizzato poco prima dell’inizio della Guerra Civile.
Nell’opera si guarda all’America come al paradiso, nonostante l’incertezza e la crudeltà dei giorni che seguiranno nella sanguinosa lotta alla schiavitù.
Quella è un’immagine ammonitrice, dipinta mentre i confini dell’unione americana venivano smembrati, precede la brutale devastazione della guerra civile ma porta con sé un inconfondibile raggio di speranza: gli arcobaleni in genere compaiono dopo che è passata una tempesta, non prima.
Sembra allora che la questione lungi dall’essere semplicemente artistica sia soprattutto identitaria: aprire le porte del Campidoglio durante l’Inauguration Day a un artista nero significa cominciare a restituire un posto da protagonisti ai grandi sconfitti della storia.
Dopo il linguaggio della demagogia e degli autoritarismi, finalmente quello misurato della responsabilità, segno evidente che la lotta al razzismo sistemico e al suprematismo bianco – discussa in campagna elettorale – è già iniziata.
Del resto, la violenza esplosa nelle strade, all’indomani dell’uccisione del ragazzo afroamericano George Floyd, scuotendo il mondo, ha portato una nuova consapevolezza: il confronto con una storia fatta di oppressione e schiavismo è, oramai, imprescindibile.
La rimozione di simboli razzisti attuata dal movimento Black Lives Matter, come le statue e i monumenti celebrativi di personaggi storici, ha segnato un punto di non ritorno.
Infatti, le statue di ex presidenti degli Stati Uniti non sono state oggetto solo di atti vandalici, ma anche di rimozioni ufficiali come quella di Theodore Roosevelt a New York (ritratto a cavallo, seguito a piedi da un uomo nero e un nativo americano), che secondo il sindaco della città Bill de Blasio “ritrae esplicitamente le persone indigene e di colore come assoggettate e razzialmente inferiori”.
Eliminare i simboli del razzismo e sostituirli con monumenti che narrino la resistenza all’oppressione restituisce dignità a figure sconfitte dalla storia occidentale: non è più solo un problema di razza, ma di cultura.
Del resto, queste istanze non provengono solo dalla popolazione di colore, ma rappresentano una priorità anche per le istituzioni.
Il Presidente di Icom Usa (International Council of Museums), istituzione museale di rilievo mondiale, all’indomani dell’uccisione di George Floyd così ha tuonato: “Ancora una volta facciamo fatica a dare un senso a ciò che un senso non ha. Speriamo che il dolore e la pena costringano l’America a confrontarsi con il suo tormentato passato razziale e che questo momento dia l’impulso alla nostra nazione per affrontare seriamente il razzismo e le disuguaglianze sociali.”
Purtroppo, la storia dell’America è piena di episodi rivelatori del razzismo sistemico e del turbolento rapporto della popolazione di colore con la polizia.
Ce lo ricorda il grande artista Jean-Michel Basquiat che, nel suo dipinto “Defacement” del 1983 – stigmatizzando l’episodio in cui era rimasto vittima il suo amico Michael Stewart -, raffigurò due officiali di polizia, armati di bastoni, atti a picchiare una figura nera. Non è un caso che Basquiat dipinse il corpo di Michael come una sagoma, perché quello non era solo il suo amico ma era diventato il simbolo dei tanti ragazzi di colore abitualmente discriminati e colpiti a morte nel silenzio complice delle istituzioni.
Qualcosa però è cambiato anche da noi europei.
L’eco di dolore del movimento Black Lives Matter è giunto anche qui: a Parigi sono state prese di mira le statue dedicate all’intellettuale illuminista Voltaire, la cui ricchezza in parte derivava dalla tratta degli schiavi, a Milano è stata imbrattata di vernice rossa la statua di Indro Montanelli.
O pensavamo forse che la cosa non ci riguardasse?
Sbagliavamo.
Già qualche anno fa, ad ammonirci era stato proprio il Parlamento europeo che con la risoluzione sui diritti fondamentali delle persone di origine africana in Europa (2018/2899 RSP) aveva chiarito che i termini “afrofobia” e “razzismo contro i neri” fanno riferimento a una specifica forma di razzismo alimentato da abusi storici e stereotipi negativi, che porta all’esclusione e alla disumanizzazione delle persone di origine africana.
Tale fenomeno sarebbe correlato alle strutture storicamente repressive del colonialismo e alla tratta transatlantica degli schiavi: “i trascorsi di ingiustizia nei confronti degli africani e delle persone di origine africana, fra cui la riduzione in schiavitù, i lavori forzati, l’apartheid razziale, i massacri e i genocidi nel quadro del colonialismo europeo e la tratta transatlantica degli schiavi, continuano a essere in larga misura misconosciuti e ignorati a livello istituzionale negli Stati membri dell’Ue”.
A quanto pare quindi, l’esperienza coloniale continua a influenzare il modo in cui ci rapportiamo ad alcuni popoli, stereotipi negativi e pregiudizi secolari ancora ci condizionano in una sorta di perpetuo eurocentrismo.
Del resto, se le istituzioni europee ci esortano a fare i conti con quel passato, vuol dire o che non lo conosciamo, o peggio, che pur conoscendolo non ne siamo consapevoli fino in fondo.
Spesso ci sfugge, infatti, che il colonialismo ha favorito la crescita del c.d. “suprematismo bianco”, perché il razzismo – radicato nelle relazioni di disuguaglianza e sfruttamento tra Europa e Africa – era funzionale all’appropriazione di risorse africane da parte dell’occidente.
Dobbiamo allora riconoscere che il privilegio economico e sociale nel quale viviamo è l’eredità lasciataci da quell’esperienza, non ammettere questo, ci dà una percezione della storia inevitabilmente falsata.
Oggi, quindi, vivendo in una società globalizzata in cui si ha accesso a informazioni che non sono polarizzate, dobbiamo provare a comprendere anche il punto di vista dei colonizzati e delle minoranze.
Ad esempio, proprio in riferimento all’arte: cosa ne è stato delle opere trafugate alle ex colonie e conservate nei nostri più importanti musei occidentali?
Molti stati europei stanno procedendo alla restituzione di quanto saccheggiato, ma non è un’operazione semplice. Certo, è un modo per riconciliarsi con un passato di conquistatori, ma occorre ammettere che, tuttora, esistono forme di colonialismo nel mondo dell’arte che andrebbero combattute. A dirlo è proprio la Presidente inglese di Icom (International Council of Museums), secondo la quale, i musei propongono una visione parziale della storia che non dà il giusto riconoscimento a tutte le comunità e le etnie.
Il rimpatrio delle opere d’arte è giusto, ma non si può guidare un cambiamento se non si smantellano le gerarchie e le strutture che escludono determinate voci dal coro dell’espressione artistica.
L’obiettivo quindi è scardinare un sistema che impone la visione dell’arte secondo canoni prettamente occidentali, restituendo le opere d’arte nei paesi di origine e potenziando le comunità a cui vengono restituiti i beni.
Il quadro normativo di riferimento è composto dai Trattati firmati alla fine della seconda guerra mondiale, tra cui la Convenzione dell’Aja per la protezione dei beni culturali del 1954, che sancisce la tutela del patrimonio artistico in caso di conflitto armato e occupazione territoriale, e la successiva Convenzione Unesco del 1970, che vieta l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni artistici.
Anche l’Italia con il Trattato di Bengasi del 2008, stipulato con l’ex-colonia della Libia, si è impegnata alla restituzione dei beni archeologici presenti nel territorio italiano confiscati durante la dominazione.
Oggi, quindi, in una società moderna – più sensibile ai temi dell’inclusività, della partecipazione e della responsabilità sociale – la politica e le istituzioni ci dimostrano che non si può non tenere conto della complessa interdipendenza di tutti questi fenomeni.
E la presenza della pittura di Duncanson, nelle sale del Campidoglio degli Stati Uniti, ci ha ricordato proprio questo, le turbolenze del passato e del presente vanno affrontate con ottimismo.
Solo due settimane fa gli americani hanno assistito alla profanazione delle camere del Congresso, al saccheggio di uffici, allo sventolare di bandiere di odio sulla democrazia.
Quell’arcobaleno è un augurio per ogni sfida futura, non solo sul versante razziale e non solo in terra americana, e come affermato da Amanda Gorman: “Ricostruiremo, ci riconcilieremo e ci riprenderemo.”