Come per la pandemia da Covid-19 c’è stato il “paziente zero”, così per l’inchiesta partita a Modena nel 1997 e passata alla cronaca con il nome di “Diavoli della Bassa modenese” ci fu il “bambino-zero”: Davide, 7 anni, le cui dichiarazioni diedero il via alle indagini cui seguirono quindici anni di processi volti ad accertare gli abusi sessuali da parte dei genitori, il giro di pedofilia e i macabri riti satanici consumati nei cimiteri di cui lui narrava.
Ben 16 bambini riferirono i medesimi fatti e vennero definitivamente allontanati dalle loro famiglie di origine.
Dopo più di dieci anni si arrivò alle sentenze definitive, alcune delle quali confermarono gli abusi subiti in ambiente domestico, altre portarono all’assoluzione per i reati commessi nei cimiteri, ma nel frattempo una madre si suicidò, il prete, accusato di essere il capo della setta di pedofili, morì d’infarto, altri genitori morirono nel corso degli anni.
A far rivivere questo complesso, e non del tutto risolto caso giudiziario, è stato il giornalista Pablo Trincia nel suo podcast, nel libro e nella docu-serie di Amazon “Veleno”.
Oggi Davide, il bambino da cui partì tutto, ormai 31enne racconta a Repubblica che quello di cui aveva parlato lo aveva inventato.
Come è possibile?
Se queste dichiarazioni sorprendono l’opinione pubblica, non restano altrettanto stupiti coloro che operano a vario titolo nel mondo giudiziario.
Può accadere, infatti, che alcuni bambini coinvolti in processi di violenza sessuale minorile, giunti all’età adulta facciano questo genere di rivelazioni e, in particolare nel caso dei “Diavoli della Bassa modenese” c’è chi una volta cresciuto, ha confermato quanto narrato da piccolo e chi, invece, ha fatto una ricostruzione diversa.
Alla luce nei nuovi sviluppi che la vicenda sta avendo, e lungi dal voler fornire una soluzione a questa complessa vicenda, occorre però rivalutare quanto già emerso dalla sentenza del 2002 della Corte di Cassazione che decideva su questo caso.
I giudici, allora, avevano evidenziato che le tecniche d’interrogatorio dei bambini adottate dagli assistenti sociali e dagli psicologi avevano prodotto il c.d. “il falso ricordo collettivo” creato artificialmente nella mente dei bambini: una deviazione della memoria, insomma, che porta alla creazione di finzioni che non consentono di distinguere più i ricordi veri da quelli che non lo sono.
Nella sentenza del 2001, la corte d’appello di Bologna affermò l’attendibilità generale delle dichiarazioni fatte da tutti i bambini relativamente agli abusi subiti in ambiente domestico. Ma assolse gli imputati per quanto riguarda gli abusi presumibilmente commessi in un cimitero in quanto i fatti non erano dimostrati. Su questo punto si precisò che le dichiarazioni riguardanti i riti satanici traevano origine dalle deposizioni alterate di uno dei bambini, che aveva fornito una ricostruzione artificiale delle esperienze di abusi realmente subiti.
Tali affermazioni erano state poi riprese, grazie anche al contesto provinciale e alla mediatizzazione della causa, generando così negli altri bambini suggestioni e falsi ricordi collettivi che li hanno portati ad amplificare le violenze effettivamente subite.
Le sentenze della Corte di Cassazione che mettono in luce come alcune tecniche di ascolto del minore non siano sempre appropriate, sono molte (una delle più importanti Cass. pen. 9817/2007) e chiariscono che è dimostrato che un bambino, quando è incoraggiato e sollecitato a raccontare, da parte di persone che hanno una influenza su di lui (e ogni adulto è per un bambino un soggetto autorevole) tenda a fornire la risposta compiacente che l’interrogante si attende e che dipende, in buona parte, dalla formulazione della domanda.
Si verifica un meccanismo per il quale il bambino asseconda l’intervistatore e racconta quello che lo stesso si attende, o teme, di sentire; l’adulto in modo inconsapevole fa comprendere l’oggetto della sua aspettativa con la domanda suggestiva che formula al bambino. In sintesi, l’adulto crede di chiedere per sapere mentre in realtà trasmette al bambino una informazione su ciò che ritiene sia successo.
Se reiteratamente sollecitato con inappropriati metodi di intervista che implicano la risposta o che trasmettano notizie, il minore può a poco a poco introiettare quelle informazioni ricevute, che hanno condizionato le sue risposte, fino a radicare un falso ricordo autobiografico.
Una volta fornita una versione, anche indotta, questa si consolida nel tempo e viene percepita come corrispondente alla realtà.
Oggi, proprio per evitare tali distorsioni, esiste la Carta di Noto che prescrive, tra le altre cose, di evitare le “domande suggestive” e che contiene le linee-guida per l’esame del minore presunta vittima di abuso sessuale.
È stata realizzata da magistrati, avvocati, psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, criminologi e medici nel corso del convegno ISISC tenutosi a Noto nel 1996 e aggiornata il 2011.
Vale per gli psicologi e, in generale, per “qualunque soggetto che nell’ambito del procedimento instauri un rapporto con il minore”.
Oltre a questa vi è anche il protocollo di Venezia del 2007 che fa propri i principi della Carta di Noto e delinea e specifica, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, le linee guida alle quali gli esperti dovrebbero attenersi nell’affrontare casi di abuso sessuale collettivo su minori.
L’ascolto del minore quindi deve seguire complessi protocolli e deve attenersi a guide metodologiche aggiornabili alla luce dei progressi scientifici.
Questa storia insegna che è difficile essere portatori di verità assolute, in pochi sanno, infatti, cosa sia realmente accaduto, o se con le condanne che ci sono state il sistema giustizia abbia fornito la risposta sanzionatoria appropriata, certo è che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza del 21 novembre 2006 – Ricorso n. 10427/02 (e con molte altre dello stesso tenore) ha condannato lo Stato italiano a risarcire alcuni di questi genitori per il danno morale cagionato loro, in violazione dell’8 della Convenzione: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita familiare. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
La condanna deriva dalla presa in carico e dall’allontanamento dei minori da parte dei servizi sociali, che hanno impedito – da subito e per troppo tempo – i contatti con i genitori, fornendo una organizzazione lacunosa degli incontri senza garantire il rispetto agli affetti familiari che anche in questi casi deve essere sempre salvaguardato.