La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ieri, 19 luglio 202, si è definitivamente pronunciata sulla drammatica vicenda che ha visto la morte del giovane Marco Vannini.
Uno dei temi centrali affrontati nella sentenza è la configurabilità di una “posizione di garanzia” e, in particolare, di quella posizione che viene definita “di protezione“.
Dalla sentenza si evince che una condotta omissiva fu tenuta da tutti gli imputati nel segmento successivo all’esplosione di un colpo di pistola e tutti gli imputati intervennero, con le loro condotte sostanzialmente omissive, dopo che il ferimento di Marco Vannini si era già verificato, incidendo sull’aggravamento delle sue condizioni e, così, violando un obbligo di intervento qualitativamente diverso dal mero obbligo di soccorso ed espressivo di una posizione di garanzia.
In sostanza, è stato affermato che si ebbe un lungo lasso temporale durante il quale l’imputato e i suoi familiari si presero cura di Marco Vannini. Questi si trovava nella loro abitazione in ragione della relazione affettiva che lo legava alla propria fidanzata e con l’intero nucleo familiare della fidanzata era in rapporti di spiccata confidenza, di tipo sostanzialmente familiare; pertanto, è del tutto logico concludere che Marco Vannini, rimasto ferito in conseguenza di quello che si è ritenuto un “anomalo incidente”, restò affidato alle cure del padre e dei familiari della propria fidanzata.
Si è quindi rilevato che la sequenza di azioni, consente di ritenere che l’imputato e i suoi familiari assunsero volontariamente rispetto a Marco Vannini, rimasto ferito nella loro abitazione, un dovere di protezione e quindi un obbligo di impedire conseguenze dannose per i suoi beni, anzitutto la vita.
In presenza di tali condizioni, la semplice inerzia assume significato di violazione dell’obbligo giuridico (di attivarsi per impedire l’evento) e l’esistenza di una relazione causale tra omissione ed evento consente di ascrivere il reato secondo il meccanismo delineato alla c.d. clausola di equivalenza (non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo).
Altra fonte dell’obbligo di garanzia è quello dell’assunzione volontaria e unilaterale dei compiti di tutela. Tale ambito ricorre in presenza di un’iniziativa spontanea nell’assunzione dei compiti di tutela, come nei casi dei vicini di casa che, in assenza dei genitori, si prendono cura di un bambino; dei volontari di pronto soccorso che, avvertiti, soccorrono il ferito in stato d’incoscienza; si tratta di obbligazione giuridica connessa all’assunzione unilaterale del ruolo di garante.
In altri termini, la posizione di garanzia – che può essere generata da investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante – deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere – dovere di cura dello specifico bene giuridico che necessita di protezione e di gestione della specifica fonte di pericolo di lesione di tale bene, alla luce delle circostanze in cui si è verificato il sinistro.
Rilevante è la circostanza che Marco Vannini, ancora cosciente nelle fasi successive al ferimento, si sia affidato consapevolmente alle cure degli imputati, così come chiaramente emerso dalla ricostruzione dei fatti e, in particolare, da quanto accertato in relazione alle sue invocazioni di aiuto, come registrate anche durante le telefonate al 118 e riferite dai vicini di casa.
Quanto all’elemento soggettivo che ha mosso il principale imputato, la Suprema Corte ha ravvisato il dolo nella forma eventuale avendo l’uomo evitato consapevolmente e reiteratamente di osservare l’unica possibile condotta doverosa imposta dal ferimento del giovane, ovvero l’immediata chiamata dei soccorsi e la necessaria corretta informazione su quanto realmente accaduto.
L’imputato evitò consapevolmente e reiteratamente (anche determinando le condotte dei suoi familiari) di osservare l’unica possibile condotta doverosa imposta dal ferimento di Marco Vannini con un colpo di arma da fuoco, ovvero l’immediata chiamata dei soccorsi.
Non v’è dubbio infatti, alla stregua delle risultanze processuali, che, ove si fosse saputo subito che il ragazzo era stato attinto da un colpo da arma da fuoco, i soccorsi attivati sarebbero stati ben diversi poiché l’operatore del 118 avrebbe attribuito all’evento un “codice rosso”, preavvertendo le strutture mediche in grado di intervenire nell’immediatezza. Quindi non sarebbe stata inviata una ambulanza con a bordo solamente un paramedico e un portantino ma sarebbe subito partito un elicottero con a bordo personale medico specializzato che avrebbe condotto il ferito presso un DEA di secondo livello, come ad esempio il pronto soccorso del Policlinico Gemelli, dove erano sempre disponibili, anche di notte, due rianimatori, un chirurgo toracico e un cardiochirurgo, che ben sarebbero potuti intervenire scongiurando l’evento morte.
L’imputato omise prima, e per un tempo apprezzabile, di chiamare i soccorsi; quando finalmente lo fece, omise di riferire quanto realmente accaduto, sebbene consapevole di aver esploso un colpo di pistola, con un’arma di potenza micidiale, e quindi con chiara rappresentazione della possibile verificazione dell’evento più tragico e, ciononostante, inducendosi ad agire accettando la prospettiva che l’accadimento avesse luogo.
L’imputato operò in un lungo contesto temporale, che gli consentì ampiamente di considerare le possibili conseguenze della sua condotta, alla realizzazione della quale si determinò nonostante vi fossero tutti gli elementi di allarme derivanti da un ferimento con un’arma da fuoco.
Egli, peraltro, si adoperò, con il fattivo aiuto dei suoi familiari, per cancellare le tracce della condotta di ferimento: fece nascondere le armi, le cartucce e il bossolo del proiettile sparato; provvide a cancellare le tracce di sangue; provvide a lavare il Vannini, spostandolo dal luogo del ferimento, nonché a rivestirlo con indumenti non suoi.
Egli quindi ebbe altresì la possibilità di rappresentarsi tutte le conseguenze dannose che possono derivare dallo spostamento di un soggetto ferito; e ciò costituisce patrimonio di conoscenza che non richiede specifiche competenze tecniche.
La sua condotta fu dunque «non solo assolutamente anti-doverosa ma caratterizzata da pervicacia e spietatezza, anche nel nascondere quanto realmente accaduto, sicché appare del tutto irragionevole prospettare – come fa la difesa – che egli avesse in cuor suo sperato che Marco Vannini non sarebbe morto.»
Sulla scorta di tali argomentazioni, la Suprema Corte ha confermato la condanna dell’uomo per il reato di omicidio volontario, sorretto da dolo eventuale, escludendo il concorso anomalo da parte dei familiari.
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