Il 25 ottobre l’esercito sudanese ha arrestato il Primo ministro, Abdallah Hamdok e diversi membri civili del Consiglio Transitorio Sovrano, l’organo misto composto da militari e civili che avrebbe dovuto guidare la transizione democratica del Paese fino alle elezioni del luglio 2023. La Costituzione approvata nel 2019 all’indomani della deposizione del regime trentennale del dittatore Omar al-Bashir è il frutto di un fragile compromesso tra le eterogenee forze che hanno destituito Bashir: l’esercito, guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan; i gruppi paramilitari, tra cui le famigerate Rapid Support Forces dell’attuale vice di Burhan, il generale Mohammed Hamdan Dagalo; e i rappresentanti della popolazione civile, protagonista della versione sudanese della primavera araba. Secondo questo compromesso, tra pochi giorni Burhan avrebbe dovuto cedere la apicale carica di Presidente de facto del CTS ad Hamdok, che avrebbe sostituito nel ruolo di Primo Ministro. Avvicendamento che non avverrà almeno fino alle elezioni, secondo quanto annunciato da Burhan.
Lo stesso Hamdok aveva definito questo governo un’”alleanza paradossale”, tra i carnefici militari responsabili del genocidio delle popolazioni non arabe del Darfur e le vittime, cioè i civili “riformisti”.
Giustificazione dell’atto di forza da parte dei golpisti è la crisi economica in cui è scivolato il Paese, attanagliato da un’inflazione che ha superato il 300 percento, e l’incapacità dell’ala non militare del governo di rimettere l’economia in carreggiata.
D’altra parte, a partire dalla sua indipendenza nel 1956 il Sudan ha vissuto una lunga stagione di guerre civili che arrivano fino ai giorni nostri. Ed anche le rivoluzioni democratiche del 1964 e del 1985 sono state soffocate da contro-rivoluzioni militari. I protagonisti della contro-rivoluzione militare di questi giorni sono Burhan e Dagalo.
Entrambi cresciuti e foraggiati da Bashir, nel 2015 hanno coordinato la missione militare sudanese in Yemen a supporto della coalizione a guida saudita contro i ribelli Huthi filo-iraniani. Ciò ha consentito loro di allacciare relazioni con i regimi di Ryad, Abu Dhabi e Il Cairo, che prima li hanno finanziati copiosamente e poi, allo scoppiare della rivolta contro il dittatore sudanese, li hanno incoraggiati a tradirlo.
La secessione del Sud Sudan nel 2011, la rimozione del Sudan dalla lista degli “Stati canaglia” e l’eliminazione delle sanzioni nonché l’accordo di pace del 2020 tra il governo di Khartoum e le fazioni ribelli del Darfur e la adesione agli Accordi di Abramo avevano fatto sperare in una “normalizzazione” del Paese. Il pugno di ferro usato nei giorni scorsi dai militari contro i manifestanti, con l’uccisione di più di 10 persone e il ferimento di altre 150 e la decapitazione di tutti gli organi dell’opposizione, riporta l’orologio indietro di quasi tre anni.
In realtà il Sudan è il teatro di una competizione tra attori esterni che cercano di guadagnare il controllo del Mar Rosso, anello di collegamento tra l’Oceano indiano e il Mediterraneo. La partita che si gioca è una replica di quella libica, con Turchia, Qatar e Fratellanza musulmana da una parte e Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita dall’altro. Gli Stati Uniti cercano di scoraggiare le iniziative di entrambe le fazioni, ma ritengono gli alleati turchi comunque preferibili ai russi. La Cina continua ufficialmente a praticare la politica di non interferenza negli affari interni dei Paesi africani, che le consente di farsi amici tra i governi dei Paesi messi al bando dall’Occidente.
Dopo essersi assicurata il controllo della Siria di Assad, la Russia, attraverso i mercenari del Gruppo Wagner, ha conquistato la Cirenaica del generale Haftar e gran parte del Fezzan, ha sconfinato in Ciad, si è installata nella Repubblica centrafricana e sta facendo altrettanto in Mali. La tessera sudanese al puzzle africano della Russia era stata aggiunta nel dicembre dell’anno scorso quando Mosca aveva ottenuto da Khartoum un accordo per la concessione di una base navale a Porto Sudan. Solo la susseguente pressione americana ha convinto i sudanesi a bloccarne l’accesso a navi straniere e chiedere la revisione del contratto ai russi. I cui mercenari della Wagner intanto sono penetrati anche in Sudan.
La Turchia ha ambizioni da grande potenza ed ambisce a raggiungere uno sbocco sugli oceani. Una delle direttrici dell’espansione turca è quella che partendo dalla Tripolitania – occupata dopo il rifiuto italiano alla richiesta di aiuto da parte del governo di Tripoli – arriva in Somalia attraversando il Sudan e l’Etiopia.
La reazione internazionale al colpo di Stato di una settimana fa è stata tardiva. Ovvero: per essere efficace avrebbe dovuto essere una pro-azione congiunta che dissuadesse preventivamente Burhan e i suoi. Ma la comunità internazionale è divisa. Washington, che è il maggiore finanziatore bilaterale di Khartoum, ha risposto immediatamente congelando aiuti per 700 milioni di dollari. La Banca Mondiale ha bloccato una linea di finanziamenti a fondo perduto per 2 miliardi di dollari. L’Unione Africana ha sospeso il Sudan, e la Lega Araba ha chiesto il ritorno del governo misto. La scommessa dei generali è che il costo dello sgarbo fatto agli americani sarà compensato dal sostegno egiziano, emiratino e saudita, dal supporto militare russo e dall’incapacità della comunità internazionale di mettersi d’accordo su una linea sanzionatoria su ampia scala. Il fatto che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non sia riuscito ad unirsi nella condanna contro i generali golpisti a causa dell’opposizione russa sembra aver segnato un punto in favore di Burhan.
Una credibile strategia italiana o europea per il Sahel e il Corno d’Africa non risulta pervenuta.
Gaetano Massara