Questa settimana si è svolta presso l’Aula Magna della Pontificia Università Gregoriana di Roma, la XX conferenza annuale intitolata allo studioso fiammingo ebreo Brenninkmeijer-Werhahn. Il tema di quest’anno è stato: Leggere dal medesimo testo: dal dialogo agli studi ebraico-cristiani. Numerosi i relatori internazionali, tra i quali la Prof.ssa Amy Levine dell’Università di Hartford, il Prof. Christian Rutishauer dell’Università di Salisburgo e la Prof.ssa Karma Johanan dell’Università Humboldt di Berlino. Relatore di casa, il Prof. Pino Di Luccio. Gli studiosi hanno esplorato le sacre scritture alla ricerca di punti di contatto tra le due religioni monoteistiche. Le vaste aree di sovrapposizione presentate sono in realtà colonne portanti della dottrina per entrambe le fedi, con il risultato che gli elementi di comunanza e unione superano quelli di distinzione seppur nelle peculiarità di ciascuna.
Il primo spunto per il dialogo tra ebrei e cristiani è stato dato dalla sessione su la parabola del buon samaritano: interpretazioni giudaiche del I e del XXI secolo. La parabola del buon samaritano, narrata da Gesù nel Vangelo secondo Luca, è anticipata da una domanda al Nazareno da parte di un dottore della Legge che vuole metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù replica alla domanda con un’altra domanda: «che cosa sta scritto nella Legge?». Ed il dottore della Legge: «amerai il prossimo tuo come te stesso». Ma a questo punto il dottore della Legge ribatte: «E chi è il mio prossimo?». Gesù non risponde con una definizione ma indicando l’azione da compiere attraverso la parabola dell’uomo – presumibilmente giudeo – che scendendo da Gerusalemme verso Gerico si imbatté in briganti che lo derubarono e percossero lasciandolo ferito e nudo sulla strada. L’uomo non fu salvato dai due giudei che passando per la strada lo videro, e cioè il sacerdote e il levita (che potremmo equiparare ad una sorta di “catechista” dei tempi di Israele antica) ma da un samaritano. I samaritani erano un popolo che viveva in Israele come i giudei, senza però condividerne la fede religiosa, e tra i due popoli vi era odio reciproco. Lo stesso Gesù non aveva permesso ai suoi discepoli di andare a predicare ai samaritani, probabilmente per non mettere in pericolo la loro incolumità. La Lettura di Luca termina con Gesù che chiede al dottore della Legge: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Da notare che Gesù struttura la sua domanda sotto forma di metonimia, rovesciando il rapporto soggetto attivo-soggetto passivo e presentando il prossimo come il soccorritore, proprio per significare la necessaria reciprocità e interscambiabilità del rapporto tra soccorritore e soccorso. In altre parole, chi oggi ha la fortuna di essere il soccorritore, domani potrebbe trovarsi nella situazione di bisogno di soccorso.
Il secondo spunto di riflessione per il dialogo tra le due religioni monoteistiche è venuto dalla sessione su l’Uomo halachico di Joseph Soloveitchick: una auto-rassicurazione ebraica di ispirazione per i cristiani.
La halakhà, ricordiamolo, costituisce l’applicazione pratica dei 613 comandamenti ebraici (mitzvòt) contenuti sia nella legge scritta (la Torà scritta o Tanakh ovvero la Bibbia ebraica, corrispondente al Vecchio Testamento dei cristiani e composta da 24 libri, di cui i primi 5 rappresentano il Pentateuco dei cristiani, i precetti rivelati da Dio a Mosè sul Sinai) sia nella legge orale (la Torà orale o Talmud, sviluppata attraverso interpretazioni e ampliamenti da parte dei rabbini). Legge scritta e legge orale che poi sono codificate nel Codice di Diritto ebraico (la Mishneh Torah). La halakhà è una guida completa delle norme di comportamento dell’ebreo che aspira alla santità, coprendo tutti gli aspetti della vita umana, sia materiale che spirituale.
Il rabbino e Rav (punto di riferimento) Soloveitchik è stato un ebreo di origini bielorusse emigrato in America che ha influenzato in maniera determinante il pensiero teologico ebraico del XX secolo. Nel saggio La solitudine dell’uomo di fede (1965) Soloveitchik scrive: «Se qualcuno mi interrogasse a riguardo della teleologia dell’halakhà, risponderei che essa si manifesta nella dialettica che soggiace alla stessa logica halakhica. Quando uno aderisce alla comunità dell’alleanza [cioè al popolo ebraico] l’halakhà gli ricorda che deve aderire anche ad un’altra comunità, quella cosmico-regale [ossia quella universale dell’umanità in quanto tale]; e quando costui e costei, impegnati nell’attività creativa della comunità cosmico-regale, incontrano l’uomo, ebbene è dovere ricordar loro di essere orientati all’alleanza, poiché non troveranno mai piena realizzazione di sé al di fuori dall’alleanza; anzi va sottolineato che Dio attende il loro ritorno nella comunità dell’alleanza».
Nel segno della dialettica, delle potenzialità ma anche dei rischi del dialogo interreligioso tra ebrei e cristiani, va considerato anche Confrontation, titolo che, come ci spiega Massimo Giuliani, non può essere tradotto con il blando termine italiano confronto quanto con il termine polemica, che echeggia il polemos (la guerra, per quanto metaforica) storico tra giudaismo e cristianesimo, alla luce del quale Soloveitchik, nel 1964 – ossia a circa vent’anni dalla Shoà, in pieno svolgimento del Concilio Vaticano II e in un clima di intensi scambi tra organizzazioni ebraiche e chiese cristiane – ammoniva i suoi ad astenersi da incontri e dialoghi interreligiosi che avessero come tema questioni teologiche o di definizione identitaria, mentre sosteneva la legittimità e l’utilità di dialogare e collaborare su questioni secolari, di natura etica, sociale e umanitaria. Come si concilia questo ammonimento a non intavolare dialoghi teologico-religiosi tra ebrei e cristiani con l’alleanza universale di tutti gli uomini de La solitudine dell’uomo di fede? Soloveitchik vuole dire che gli ebrei non hanno diritto di intervenire, o cercare di migliorare, la dottrina cristiana così come i cristiani non hanno diritto di entrare nelle questioni religiose ebraiche o di dar forma al giudaismo.
L’uomo, secondo Soloveitchik, non necessita di alcun miracolo o intervento divino per comprendere la Torà; basta che si avvicini al mondo dell’halakhà con la sua mente e la sua intelligenza, così come un uomo di scienza si avvicina al mondo della natura. Anzi, un intervento divino nello sviluppo dell’halakhà violerebbe l’integrità e l’autonomia dell’indipendenza intellettuale dell’uomo halakhico. Da qui il superamento della passività dell’homo religiosus al quale l’homo halakhicus si contrappone proprio in virtù della sua capacità di assurgere a un livello superiore a quello naturale, che gli fa desiderare la redenzione, a un livello di con-partecipazione a quella stessa redenzione che Dio gli ha, con la rivelazione, posto tra le mani. Il significato più alto della teshuvà (il rito del pentimento nell’Ebraismo, di cui la confessione dei peccati è componente essenziale), per Soloveitchik, è questo: l’uomo può ricrearsi e auto-rinnovarsi orientando ex novo il proprio destino, senza piangersi addosso o restare bloccato da vani sensi di colpa.
Il riaffermare la libertà individuale dinanzi alle istituzioni è una premessa altrettanto indispensabile per proporre la dualità feconda, la tensione dialettica tra la dimensione ad intra, intima e particolare della vita ebraica in quanto vita halakhica e la dimensione ad extra, pubblica e universale della vita umana in quanto partecipazione al miglioramento del mondo, dimora di tutti i viventi. Tale dialettica non è da risolvere a favore di una dimensione o dell’altra, ma è da tenere sempre in un equilibrio armonico.
Non stupisce dunque il fatto di ritrovare questo ideale di dualità e di equilibrio persino all’interno della storia ebraica intesa come storia di un Dio che educa il suo popolo, etimologicamente che lo «porta fuori» – exducere come exodus – dall’Egitto ossia il paese della passività idolatrica e della non libertà di scelta. E chi porta fuori il popolo da questo status di schiavitù verso la libertà se non le sue guide, Mosè ed Aronne? Ecco allora Soloveitchik parlare della duplice leadership del popolo ebraico, non solo all’epoca dell’uscita dall’Egitto. In questa duplice leadership, è posta la distinzione tra il maestro-re (Mosè) e il maestro-santo (Aronne). Il primo insegna alla mente, mentre il secondo comunica con il cuore; il primo pone enfasi sul capire (e dunque sull’apprendere tramite lo studio analitico), il secondo sottolinea il sentire (e dunque il comprendere tramite intuizione e trasporto interiore). Il primo parla a pochi, il secondo parla a tutti.
Anche se non menzionato durante il dibattito, riteniamo che l’insegnamento della parabola di Giobbe fornisca una prova ulteriore del rapporto filiale tra cristiani ed ebrei. Giobbe è un uomo ricco, con molti figli, giusto e timorato di Dio. Satana dice a Dio che è facile per uno come Giobbe essere devoto a Dio, e ottiene da Dio di poter mettere alla prova Giobbe. Quindi gli fa perdere tutti gli averi materiali, gli fa morire i dieci figli e lo fa cadere in malattia. Ma Giobbe rimane fedele a Dio nonostante tutte le sventure. Quindi Satana invia in visita a Giobbe i tre suoi amici affinché lo inducano a bestemmiare Dio: «se tu Giobbe hai avuto tutte queste sventure è perché hai fatto qualcosa di male, e Dio ti ha punito per ciò». Ma Giobbe risponde: «se amo Dio nei momenti di felicità perché dovrei smettere di amarlo nelle sventure?». Quindi Dio premia Giobbe della sua fede restituendogli le ricchezze in misura raddoppiata e dandogli dieci nuovi figli. Anche nelle più gravi disgrazie vi è un disegno divino che l’uomo non conosce.
Come non ritrovare in tutte queste riflessioni sull’universalità dell’esperienza rivelativa tratti comuni al giudaismo e al cristianesimo?
Le radici greco-romane e giudaico-cristiane sono le radici profonde che hanno plasmato per più di venticinque secoli la cultura europea. Una comune casa europea che ignori ciò è come una casa costruita sull’argilla, i cui abitanti sarebbero inevitabilmente in lotta tra di loro e in balìa di soggetti esterni. Ci auguriamo che i dirigenti europei lo capiscano.
Gaetano Massara