L’amor patrio non ha colore politico. O meglio: dovrebbe essere patrimonio comune di tutte le forze politiche. Ce lo ricorda Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di oggi: «il patriottismo non può essere un monopolio di nessuno. Il patriottismo non è un’opzione politica, talché si finisca inevitabilmente per concludere che sarebbe patriota chi la pensa come noi e invece non lo sarebbe chi ha opinioni diverse o magari opposte». Galli della Loggia allude probabilmente al paradigma conservatori-progressisti. Nelle democrazie mature e nelle grandi nazioni, quelle che hanno consapevolezza della propria storia e soprattutto che ambiscono ad assumere un ruolo di guida nella comunità degli Stati ed hanno una chiara visione della traiettoria del proprio corso storico futuro, il patriottismo è patrimonio comune a tutte le forze politiche popolari, quelle conservatrici come quelle progressiste.
Nella Francia rivoluzionaria, i giacobini – che sedevano a sinistra nell’Assemblea legislativa – furono quelli che appellandosi al patriottismo degli “straccioni” delle classi operaie riuscirono a infliggere a prussiani e austriaci le pesanti sconfitte di Valmy e Jemappes e a difendere l’indipendenza della Francia. Dopo il crollo del Secondo impero francese a Sedan e la perdita dell’Alsazia e della Lorena, furono le classi popolari e agrarie a sopportare il pesante carico fiscale che permise alla Francia di finanziare il riarmo per realizzare la revanche e la riconquista delle provincie perdute. Nel 1985, per dotarsi di una leva di ricatto nei confronti del pericoloso concorrente italiano, divenuto all’epoca la quarta potenza economica mondiale e punto di riferimento per numerosi Paesi del Mediterraneo, la Francia a guida socialista adottò un provvedimento legislativo (la c.d “dottrina Mitterand”) che concedeva asilo politico ai terroristi italiani.
Lo stesso Partito laburista britannico del secondo dopoguerra, pur essendo promotore di uno stato sociale diffuso e con una base largamente pacifista, sostenne il mantenimento di saldi legami con le ex colonie attraverso il Commonwealth, il programma di armamenti nucleari e la partecipazione all’avventura irachena del 2003.
Né gli Stati Uniti si sono mai dimessi dal ruolo di super-potenza quando sono stati guidati da amministrazioni democratiche. Anzi, sono stati presidenti democratici a sostenere l’intervento NATO nell’ex-Jugoslavia e americano in Libia.
Le stesse ideologie politiche sono sotto-ordinate rispetto all’esigenza di sicurezza geopolitica della nazione, che le utilizza per raggiungere i propri obiettivi. Paradossalmente, proprio l’URSS che all’esterno predicava l’internazionalismo della classe operaia fu lo Stato che permise alla Russia di raggiungere un livello di potenza e di estensione territoriale che gli zar avevano perseguito per secoli ma non erano mai riusciti a raggiungere.
L’idea di Patria è radicata così profondamente nello spirito degli uomini che nel corso della storia si è fatto abbondantemente ricorso ad essa per mobilitare le energie delle collettività nei momenti più gravi.
«Lo spirito del grande Lenin e la sua vittoriosa bandiera ci animano alla guerra per la difesa della Patria. Evviva la nostra gloriosa Patria, la sua libertà, la sua indipedenza!». Queste le parole pronunciate da Stalin il 7 novembre 1941 alle truppe sovietiche radunate nella Piazza Rossa per incitarle a liberare la madrepatria russa dall’invasore tedesco. Perfino l’impero asburgico sconvolto dalle conquiste napoleoniche fece appello alle nazionalità per coagulare le forze popolari necessarie a cacciare l’invasore (salvo poi tradire le loro aspettative al congresso di Vienna).
Purtroppo l’Italia non appartiene ancora alla categoria delle democrazie mature. Da noi il patriottismo è parola quasi esclusiva del vocabolario del campo conservatore. Il campo progressista la maneggia generalmente con imbarazzo se non con scherno. Il risultato è che il confronto politico si è caratterizzato come contrapposizione tra lo schieramento conservatore-patriottico e quello progressista-mondialista.
Eppure, nel regno d’Italia la sinistra fu non solo protagonista del Risorgimento, dell’Unità e dell’irredentismo in Istria, a Fiume e in Dalmazia, ma si fece persino sostenitrice dell’espansione coloniale italiana in Africa al fine di guadagnare un avamposto da cui sventare meglio eventuali minacce mediterranee.
Il Fascismo, attraverso le infami leggi razziali, ebbe la colpa di deformare l’amor patrio nella sua caricatura con la purezza della razza. Ma le forze che hanno combattuto contro i tedeschi e i fascisti inneggiarono alla Patria solo durante la lotta di liberazione, per poi ammainare la bandiera. Dopo la sconfitta che ci ha declassato a Paese dalla sovranità limitata, non ci fu consentito di coltivare il sentimento dell’amor patrio e di perseguire una esplicita strategia per l’interesse nazionale. La Costituzione della Repubblica italiana fu il «trattato di pace fra Stati diversi» (Costantino Mortati) vincitori contro di noi e «rappresentati dai loro partiti in Italia» (Lucio Caracciolo). Due potenze straniere ed una potenza domestica fecero in modo di diffondere ideologie che funsero da efficaci antidoti contro la diffusione del sentimento dell’amor patrio e dell’emancipazione dell’Italia dalla tutela straniera. L’URSS propagandò il solidarismo internazionale tra i proletari per minacciare la pace sociale, ed utilizzò a tal fine il PCI. Gli USA furono molto più benevoli, promuovendo il libero mercato, finanziando la nostra impetuosa crescita economica e accontentandosi di controllare militarmente il nostro territorio. La Chiesa cattolica riprese ad esercitare la sua storica influenza sulle coscienze degli italiani, la quale seppur positiva sotto molti aspetti rese più difficile il rinascere di una “religione civile” nazionale. Questa e quelli ebbero nella DC le proprie quinte colonne all’interno dello Stato italiano.
Tra i partiti italiani di oggi, solamente due purtroppo si propongono esplicitamente di promuovere l’interesse nazionale. Entrambi sono nello schieramento di centro-destra. Ciò porta a identificare i patrioti con i conservatori. Con il risultato che le forze di centro-sinistra non riescono ad avere appeal su vasti strati di elettorato. E’ ora che anche la sinistra italiana diventi adulta dotandosi di una chiara agenda valoriale e programmatica per la promozione dell’interesse nazionale, e non rimanga la sorella minore della Gauche francese, del Labour britannico e del Partito Democratico americano. Una forza nazional-progressista che sappia coniugare le legittime battaglie per i c.d. diritti civili con la legittima aspirazione dell’Italia a guidare l’Europa insieme alla Germania e alla Francia e a recitare un ruolo di primo piano – politico, economico, industriale, culturale e militare – sul palcoscenico internazionale.
Galli della Loggia scrive che il patriottismo è «qualcosa che va al di là delle opinioni politiche, per più versi qualcosa di prepolitico, in forza del quale sentiamo di avere un legame, un patrimonio condiviso (a cominciare da quello fondamentale della lingua) anche con chi nutre idee politiche diverse, pure assai diverse, dalle nostre. Proprio per questo solamente la nazione democratica può essere in realtà una vera patria. Perché solo in un regime democratico è garantita a tutti la massima latitudine delle opinioni, la più ampia libertà di pensiero, e quindi il vincolo patriottico può avere la massima estensione, includere virtualmente ognuno». Tutto condivisibile eccetto le ultime tre parole. Così come la democrazia ha bisogno di fissare un recinto alla manifestazione delle libertà individuali affinché l’amplificazione delle libertà dell’uno non si tramuti in compressione delle libertà dell’altro, allo stesso modo il sistema democratico dello Stato nazionale deve prevedere degli anti-corpi, dei dispositivi di sicurezza che non consentano alle forze disgregatrici dello Stato e della nazione di suicidarsi. Il vilipendio della Patria e il tradimento non possono essere ammessi.
Galli della Loggia afferma che il patriottismo non è un’opzione politica e che «ciò vale anche nel caso di questioni d’importanza capitale». Devo dissentire da quest’ultima frase. Questioni come l’integrità territoriale dello Stato, la sicurezza nazionale, la tutela delle risorse industriali e tecnologiche sono questioni capitali che nel merito segnano lo spartiacque tra patrioti e non patrioti. Per fare un esempio, non può dirsi patriota chi (il ministro degli esteri Gentiloni) nel 2015 firmò il trattato di Caen in forza del quale l’Italia avrebbe ceduto alla Francia zone di mare della Sardegna, della Toscana e della Liguria. Trattato che fu giustamente affossato dalla mancata autorizzazione parlamentare alla ratifica ma che le autorità francesi provarono maldestramente a rendere effettivo attraverso la pubblicazione sul sito del ministero francese di mappe che applicavano le modifiche dei confini marittimi e a cui fece seguito il sequestro di pescherecci italiani che operavano in quelle acque, dove avevano pescato da sempre.
Allo stesso modo l’applicazione o meno di principi come la reciprocità, la coerenza o il modo attraverso il quale vengono regolati gli affari tra Stati sono questioni capitali che nel metodo segnano lo spartiacque tra patrioti e non patrioti. Per essere chiari: il Trattato di Maastricht è un trattato europeo. Come tale, esso ha valore costituzionale e le sue disposizioni possono essere modificate solo attraverso un nuovo trattato europeo, che per entrare in vigore deve essere approvato da tutti i parlamenti dei Paesi UE e, in alcuni Stati membri, anche ratificato attraverso referendum popolari. In fase di negoziazione dei parametri di Maastricht, i tedeschi avrebbero voluto imporre la rigidità dell’applicazione dei parametri che regolano l’adesione alla moneta unica di ciascun membro dell’Eurozona. Grazie all’insistenza di Guido Carli, l’Italia ottenne che venisse applicato il più flessibile criterio della “tendenzialità” verso il raggiungimento dei parametri stessi. Già poche settimane dopo la firma del trattato di Maastricht i tedeschi iniziarono a chiedere una revisione del trattato nel senso di una maggiore rigidità. Aspirazione legittima se tale revisione fosse stata adottata attraverso il procedimento previsto per la revisione dei trattati europei. Invece, le modifiche al trattato di Maastricht furono approvate attraverso un semplice regolamento, il Patto di Stabilità, per la cui approvazione non servono passaggi parlamentari né referendum ma solamente la sottoscrizione da parte del Consiglio europeo e dell’Europarlamento. Attraverso un artificio giuridico sostanzialmente illegittimo sottoscritto dal presidente del Consiglio Prodi e dal ministro del Tesoro Ciampi l’Italia consentì il commissariamento della propria economia e lo snaturamento dell’Euro originario.
Anche per questi motivi è importante che al Quirinale salga una persona che coltivi l’amicizia con i nostri alleati, che sappia promuovere gli interessi dell’Italia e che sia pronto a dire di no quando qualcuno oltrepassa i confini della reciprocità: in una parola, un patriota. Se di destra o di sinistra, ciò è secondario. Ma il fronte progressista è pronto a tale salto?
Gaetano Massara
PS: a proposito del Patto di Londra del 1915 col quale l’Italia si impegnò con Inghilterra, Francia e Russia a dichiarare guerra all’Austria, Galli della Loggia scrive che fu un «errore politico conclamato, che per le sue clausole e la sua complessiva scarsa lungimiranza doveva rivelarsi per l’Italia, a guerra finita, un campionario di errori catastrofici». Il trattato, con le promesse di compensi territoriali all’Italia, non fu un errore. Il nostro ministro degli esteri che lo negoziò, Sonnino, aveva in realtà chiesto compensi territoriali ancora maggiori sulla costa dalmata, popolata da una larga minoranza italiana. L’errore fu semmai fatto alla conferenza della pace dal Presidente del consiglio Orlando e da Sonnino stesso, i quali non solo erano in disaccordo tra di loro su quali compensi territoriali dovessero essere irrinunciabili ma, invece di considerare il Patto di Londra come un punto di partenza sul quale aprire una negoziazione, si arroccarono dietro alla richiesta di una rigida esecuzione del Patto stesso.