La città di Pordenone ha reso omaggio al grande Martina, uno dei suoi più illustri pittori della prima metà del ‘900, ingiustamente dimenticato dalla critica, con una mostra conclusasi pochi giorni fa ed a lui interamente dedicata con una trentina di opere, presso il Museo Civico Palazzo Ricchieri, dal titolo: “Umberto Martina fra sacro e profano” con la curatela di Boris Brollo, organizzata dalla Fiera di Pordenone col partenariato della Fondazione Friuli e del Comune di Pordenone. Come recita il curatore dell’esposizione: «La storia di questa mostra viene da lontano, e cioè dalla mia frequenza di Spilimbergo, dove, col pittore Cesare Serafino, venni nominato a far parte della Commissione Cultura dall’allora Sindaco Renzo Francesconi. Fra le altre attività, organizzammo nella frazione di Tauriano, una mostra di arte moderna e lì sentii parlare di Umberto Martina. Poi mi portarono a vedere la Pala della Chiesa di San Rocco in centro storico a Spilimbergo e mi piacque quella sua pittura pastosa. Così, approfondendo, scoprii che nel Duomo di Portogruaro, dove abito, ha operato lo stesso Martina facendo le ante laterali dell’organo, tuttora visibili. […]..Altri dipinti suoi mi vennero indicati in casa di privati e poi alla GAM di Udine e nel Museo Civico di Pordenone»
Umberto Martina nacque a Dardago di Budoia in provincia di Pordenone il 15 luglio 1880 da una famiglia di umili origini, tant’è che il padre Luigi fu costretto, come molti altri friulani, ad emigrare in cerca di lavoro e fortuna. «La terra lassù vi è magra, un materasso alluvionale, e i contadini non ne ricavano abbastanza per vivere, quindi molta emigrazione e una parte di essa tradizionalmente a Venezia. Sulla laguna quei furlani dell’Alta arrivano ragazzetti, cominciano col fare gli sguatteri, poi i cuochi e i camerieri e poi diventano proprietari di osterie, di trattorie, di locande; qualcuno crea locali prestigiosi e raggiunge posizioni di notevole peso. E’ brava gente, serie, avveduta, lavoratrice, che guadagna e sa rispettare il denaro che guadagna. Il padre di Martina fu uno di quelli. Emigrato a Venezia, aprì in campo Santi Giovanni e Paolo un Caffè, che in omaggio al monumento equestre al Colleoni, l’opera miracolosa del Verrocchio che gli stava davanti alla porta, chiamò “Cavallo”. Il “Caffè Cavallo” c’è ancora: due ampie stanze e alle pareti pannelli con scene settecentesche veneziane di Cherubini..[….]..Martina bambino, venne su in quel Caffè e in quel campo che, con la prospettiva del canale che va alla Fondamenta, è rimasto come lo videro e lo dipinsero il Canaletto e il Guardi ed è fra i più incantevoli di Venezia…[…]..Succede sempre la medesima cosa: il figlio vuole fare il pittore e il padre cerca di opporsi. Lo stesso è avvenuto a Martina, naturalmente, ma il padrone del caffè “Cavallo” non s’intestardì e alla fine permise al ragazzotto di prepararsi ad entrare all’Accademia, dove in quegli anni insegnava Ettore Tito, un nome allora formidabile e che ancora non e’ stato dimenticato» ( Martina di Arturo Manzano, ed. della Pro Spilimbergo, 1970). Così Martina studiò e crebbe nella città lagunare circondato da capolavori artistici e paesaggistici che segnarono profondamente la sua crescita interiore e professionale. Come dichiarato dall’amico personale di Martina, Ernesto Corsini , non a caso il futuro pittore, allora quindicenne : « era rimasto “a lungo estatico” davanti a un quadro intitolato “ I flagellanti” esposto nella prima Biennale di Venezia del 1895 dell’americano trapiantato a Monaco di Baviera, Carlo Marr, del quale oggi più nessuno ricorda», (Panarie, marzo-aprile 1932). Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti a Venezia dove approfondì lo studio della figura, si trasferì a Monaco di Baviera presso la locale Accademia dove insegnava il pittore Carl von Marr (1858-1936). Tornato in Italia, Martina partecipò alla Mostra nazionale di Belle Arti di Milano, e successivamente partecipò a varie edizioni della Biennale d’Arte di Venezia ( 1907, 1909, 1910, 1912, 1922 e 1924) oltre che a molte collettive a Ca’ Pesaro. Noto per i suoi ritratti, ebbe un ampio giro di committenze private e le sue opere furono spesso esposte in salotti borghesi veneziani. Dipinse anche vari soggetti sacri, nudi, paesaggi e vedute d’interni, ma molte sue opere risultano purtroppo disperse. Nella sua bottega veneziana a S.Barnaba accolse giovani allievi come : Luigi Zuccheri, Virgilio Tramontin e Armando Buso. «Aveva lo studio in San Barnaba in fondo alla fondamenta delle Pasiense…[..] un ambiente sobrio, luminoso, essenziale e pragmatico, insomma a misura della personalità del pittore che era burbero e scontroso…[..]Visse il miglior periodo della sua vita e della sua arte negli anni ’20 e ’30, nella affasciante Venezia delle calli e dei campielli pervasi dall’odore del salso e del fritto di pesce», ( Il Barbacian, anno 32, n.1,1995 – Umberto Martina: appunti per un ritratto rustego di Gianni Colledani).
Martina realizzò innumerevoli opere straordinarie (molte delle quali purtroppo sono andate perdute) oltre ad affreschi e oli, in chiese , locali pubblici ed abitazioni private. Come descritto da Gianni Colledani: « la sua attività migliore e la piu’ sentita fu però quella di ritrattista, che gli procurò meritata fama in Italia e all’estero e, senza dubbio, l’agiatezza economica, tanto che, a Tauriano, in più riprese comperò una bella proprietà consistente in casa, stalla e fondo annesso con diversi altri poderi, che la vedova vendette nel 1951». Fu molto attivo in tutto il Triveneto ed in particolare a Spilimbergo, dove decorò il salone di Palazzo Ciriani e realizzò i bozzetti per il pannello musivo per il Monumento ai Caduti. Dopo una vita professionale molto attiva, che gli permise di raggiungere una certa agiatezza economica ( i suoi ritratti erano richiestissimi tant’è che talvolta dovette rinunciare ad alcune committenze) , a causa della guerra, ritornò nel suo nativo ed amato Friuli, dove visse serenamente i suoi ultimi anni con la compagna e modella Luigia Gottipavero, che sposò dopo non poche incertezze, e dove si spense nel gennaio del 1945.
Egli fu anche un grande amante e studioso di Velasquez del quale si può rilevare l’influenza nella pennellata sicura e la maestria nell’utilizzo del colore. Martina e’ stato infatti un vero e proprio “artigiano del colore” oltre che un “ maestro del ritratto”. Come scrive Gianni Colledani :«In lui convivevano genialità ed irrequietezza, un binomio tipico dei grandi uomini..[..]..di profondi sentimenti e di poliedrica cultura. I suoi ritratti possono essere considerati delle vere e proprie opere d’arte per la robusta e gradevole virtuosità della pittura e per l’acuta introspezione psicologica…[..] Col colore si sublima la forma, in una meditata cascata di bianchi e rosa, di grigi, di azzurri. In questo gioco cromatico era insuperabile, gioco che egli esaltava con strisce e chiazze, sbavature capricciose, dove si ha quasi l’illusione di scrutare attraverso la pelle e il cuore di chi gli è stato di fronte, sia esso un uomo maturo o un vegliardo, una donna nel fiore degli anni o una ragazza nella primavera della vita».
di Daniela Paties Montagner