Recuperare lo spazio geopolitico dell’Impero Ottomano. Ideologia, Islam e laicità sono strumenti al servizio della nazione turca.
Il passaggio dall’Impero Ottomano alla Repubblica Turca fondata da Mustafa Kemal Ataturk nel 1923 fu accompagnato dalla perdita di tutti i territori del Medio Oriente e dei Balcani, ad eccezione della Tracia orientale. A differenza dell’impero ottomano, musulmano e multinazionale, la Repubblica kemalista è stata fondata sul secolarismo, sull’etnonazionalismo turco e su una postura filo-occidentale.
Ataturk capì che per consolidare la nuova repubblica era necessario anteporre lo sviluppo umano all’espansione territoriale. Questo si tradusse nel suo motto “pace in casa, pace nel mondo”. Tuttavia, ciò non gli impedì di lasciare un testamento revisionista, vale a dire la missione di annettere il Kurdistan iracheno e siriano, Cipro, le isole dell’Egeo e la Tracia occidentale. Inoltre, sebbene il kemalismo non perseguisse esplicitamente il panturchismo – una dottrina politica che mira a unificare le nazioni turcofone dal Caucaso all’Asia centrale – esso non si opponeva all’ideale pan-turco.
Dopo la neutralità nella Seconda guerra mondiale, la politica estera turca continuò a perseguire una linea filo-occidentale. Nel 1952 aderì alla NATO e ciò permise ad Ankara di costruire il secondo esercito più grande della NATO. Nel 1963 stipulò un accordo di associazione con la Comunità Economica Europea.
Nonostante il sistema bipolare della guerra fredda impedisse ad Ankara di oltrepassare la sua funzione geopolitica di contenimento dell’URSS nel Mar Nero, essa non perse le rare occasioni che le si presentarono per modificare lo status quo nel Mediterraneo orientale, come nel 1974 quando intervenne a Cipro creando la Repubblica Turca di Cipro del Nord.
Alla fine degli anni ’80, due eventi posero le basi per un riorientamento della politica estera turca. In primo luogo, il referendum che revocò il divieto di associazione politica agli aderenti del Milli Gorus (Visione nazionale), movimento difensore dell’Islam politico, contribuì allo smantellamento del sistema kemalista e all’adozione di una politica estera più indipendente dall’Occidente.
In secondo luogo, la caduta del muro di Berlino creò le condizioni per il revisionismo della Turchia. Tuttavia, negli anni ’90 Ankara perseguì ancora una politica di pieno allineamento con l’Occidente, come dimostrato dalla sua richiesta di adesione all’UE nel 1987 e dall’inaugurazione di un’unione doganale con l’UE nel 1996.
Le ambizioni imperiali di Erdogan
L’ascesa al potere nel 2002 di Recep Tayyip Erdogan – un ex adepto del Milli Gorus – e del suo Partito della giustizia e sviluppo (AKP), islamista e conservatore, ha accentuato il processo di riorientamento in senso nazional-islamico. Divisi sul piano valoriale, Ataturk ed Erdogan sono accomunati dallo stesso fervente nazionalismo.
Il presupposto di base della politica estera turca odierna, ripreso da Ahmet Davutoglu, Ministro degli Esteri dal 2009 al 2014, è che l’Anatolia è un ponte tra Europa, Africa e Asia, e quindi che gli interessi geopolitici di Ankara debbano essere perseguiti attraverso una profondità strategica che abbracci i tre continenti. Ciò significa che la sicurezza dell’Anatolia deve essere perseguita in una macroregione che va da Sarajevo e Tripoli passando per Mykolajiv e Baghdad fino ad arrivare a Kabul, Mogadiscio e Karachi.
Tuttavia, nel primo decennio del secolo, la dottrina della profondità strategica è stata applicata attraverso il perseguimento dell’integrazione economica internazionale, il soft power e la costruzione di un contesto di pace come espresso dallo slogan “zero problemi con i vicini”. Il neo-ottomanesimo di Davutoglu nella sua versione liberale aveva lo scopo di rendere la Turchia il leader del Medio Oriente e ottenere le credenziali per il suo accesso all’UE. Infatti, dopo l’11 settembre, i tentativi di accreditare la Turchia come modello di Islam moderato hanno ricevuto il sostegno di Washington e delle capitali europee.
Il panturchismo è perseguito attraverso il Consiglio turco, che promuove la cooperazione tra i paesi di lingua turca. L’obiettivo di Ankara è allargare il legame tra Turchia e Azerbaigian, uniti da un trattato di mutua difesa, a tutta l’Asia centrale compreso il Pakistan – già suo stretto alleato – e l’Afghanistan.
I Balcani sono un’altra regione in cui la Turchia fa leva sulla sua presenza storica. Ankara punta ad aprirsi la strada verso l’Europa attraverso il corridoio musulmano Macedonia-Albania-Kosovo-Novi Pazar-Bosnia. Erdogan interviene apertamente nelle campagne elettorali dei paesi della regione sostenendo i candidati filo-turchi.
La presa di distanze dall’Occidente
Il secondo decennio del secolo ha visto un riposizionamento internazionale della Turchia. Il sostegno occidentale al colpo di stato che ha rovesciato il regime di Mohamed Morsi in Egitto, alle proteste anti-Erdogan di Gezi Park, ai curdi di Siria e Iraq, nonché al tentato colpo di stato del 2016 hanno convinto il leader turco che l’Occidente non è pronto a sostenere la sua politica.
Questi eventi hanno determinato tre sviluppi principali. In primo luogo, il fallito colpo di stato ha dato a Erdogan l’opportunità di emarginare l’opposizione e promuovere un referendum costituzionale che concentrasse il potere sul presidente.
In secondo luogo, Erdogan ha abbracciato la dottrina della preziosa solitudine, il che significa promuovere gli interessi della Turchia senza obblighi di lealtà verso gli alleati tradizionali. In altre parole, bilanciare l’adesione alla NATO attraverso la cooperazione con Russia, Cina, Iran e altri stati allergici all’ordine internazionale guidato dagli USA. Effetti immediati sono stati la decisione di acquistare il sistema di difesa antiaerea russo S-400 e l’avvio del processo di Astana con Mosca e Teheran sulla Siria.
In terzo luogo, Ankara ha integrato la profondità strategica con la dottrina della patria blu, annunciata dopo il riconoscimento da parte dell’UE della Zona economica esclusiva (ZEE) di Cipro. Questa dottrina è stata creata per fornire una base giuridica alle rivendicazioni della Turchia su quello che considera il suo spazio vitale liquido. Tuttavia, essa proietta le ambizioni della Turchia ben al di là del Mediterraneo orientale: ad Ovest verso lo Stretto di Gibilterra e l’Africa occidentale, e ad Est attraverso il Canale di Suez, il Mar Rosso, la costa somala e l’Oceano Indiano, in modo da ricongiungersi al mondo turanico attraverso il Pakistan.
Gli effetti immediati dell’adozione di quest’ultima dottrina sono stati il peggioramento delle relazioni con Israele, il fallimento dei colloqui di Crans Montana sul futuro di Cipro e la costituzione dell’EastMed Gas Forum, un consorzio di produttori di gas del Mediterraneo orientale senza Ankara.
Ma la Turchia ha usato la crisi libica per rompere l’accerchiamento. Nel novembre 2019, Ankara ha chiesto al governo di accordo nazionale (GNA) di Tripoli di concludere un accordo per la delimitazione delle rispettive ZEE. Questo accordo stabilisce un confine comune tra la ZEE turca e quella della Cirenaica, consentendo alle acque turche di incunearsi tra quelle greco-cipriote e di accedere così al Mediterraneo aperto.
Un mese dopo, il GNA, minacciato dall’avanzata dell’Esercito nazionale libico (LNA) sostenuto dalla Russia, ha chiesto aiuto militare alla Turchia, che ha risposto prontamente a condizione che Tripoli non denunci l’accordo turco-libico se la Libia sarà un giorno riunificata.
La Libia è anche l’avamposto da cui Ankara lancia la propria profondità strategica in Africa. La linea di espansione occidentale raggiunge la costa atlantica attraverso Algeria, Mali, Niger, Senegal e Gambia. La rotta dell’Africa orientale raggiunge l’Oceano Indiano attraverso il Sudan, l’Etiopia e la Somalia. Tutti questi paesi sono legati alla Turchia da stretti legami.
La seconda guerra azerbaigiano-armeno sul Nagorno-Karabakh ha inoltre permesso alla Turchia di ripristinare lo status quo nel Caucaso. Il supporto militare di Ankara non è stato solo decisivo per la vittoria di Baku, ma le ha anche permesso di assicurarsi un collegamento diretto con l’Asia centrale.
Ma nel 2021 Ankara si è resa conto di essere isolata.
Crisi ucraina e prospettive
La guerra in Ucraina è stata un’ulteriore opportunità colta da Erdogan per aumentare il proprio potere negoziale.
Tenere la Russia lontana dal Bosforo è un costante imperativo geopolitico della Turchia. L’aggressione russa all’Ucraina rappresenta una battuta d’arresto per Ankara, che ha condannato la Russia all’ONU, ha chiuso gli Stretti e interdetto il proprio spazio aereo agli aerei russi diretti in Siria. Ciò spiega perché la Turchia sta aiutando l’Ucraina a resistere, fornendole droni e corvette.
Tuttavia, per la Turchia, la mediazione è una scelta obbligata per non essere espulsa definitivamente dall’ex repubblica sovietica. Inoltre, con il taglio delle forniture energetiche russe lungo il corridoio Nord, la collaborazione con Putin consente a Erdogan di sfruttare al meglio il corridoio anatolico. Anche per questo non ha approvato le sanzioni contro Mosca.
Ma sebbene la Turchia sia concorrente della Russia in Medio Oriente, Asia centrale e Africa, Ankara ha bisogno della collaborazione con Mosca per poter alzare il prezzo della propria fedeltà all’America. Per Erdogan l’alleanza con gli Usa è funzionale “agli interessi della Turchia”. Il mantra è sfruttare la distrazione americana per riempire il vuoto lasciato dalla superpotenza o addirittura giocare tra Washington, Pechino e Mosca per ottenere il massimo da tutte.
Il successo di Erdogan nell’arginare la Russia in Siria, Libia, Caucaso e Asia centrale ha portato gli Stati Uniti a chiudere un occhio davanti alle intemperanze del nuovo Sultano, come dimostrato dal ritiro da parte di Washington del sostegno al progetto del gasdotto EastMed.
Ma le ambizioni imperiali di Erdogan si scontrano con la realtà economica. Afflitti da un’inflazione dell’80% e da una svalutazione del 50% della lira turca, la Erdoganomics non ha ancora prodotto benefici.
Le elezioni dell’anno prossimo si avvicinano. Il consenso per l’AKP è inferiore al 30%, un risultato che metterebbe in discussione il potere di Erdogan. La sua assertività sulla scena internazionale può essere spiegata solo in parte come un diversivo per distrarre l’attenzione dei suoi concittadini dai problemi economici. Difficilmente le ambizioni della Turchia scomparirebbero con un cambio di leadership. Lo squilibrio tra ambizioni e mezzi sarà la migliore garanzia contro l’espansionismo turco.
Gaetano Massara