AGI – Tutti vogliono entrare nel Commonwealth e Londra apre le porte a chiunque, rinunciando anche ai principi fondativi dell’organizzazione delle ex colonie britanniche. Non guarda se è un paese è democratico, se rispetta i diritti fondamentali delle persone. Tutto questo, dopo la Brexit, non conta. Contano gli investimenti e le potenzialità di mercato che offre chi entra nell’organizzazione.
Londra, inoltre, sta intensificando la sua presenza nel continente africano attraverso rapporti bilaterali, vuole – è stata la promessa fatta nell’ultimo vertice afro-britannico a Londra il 20 gennaio 2020 – incrementare i suoi investimenti ed espandere il suo mercato. Vuole diventare il maggior investitore sul continente africano e superare gli altri membri del G7 e stiamo parlando di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone e mettiamoci anche l’Italia.
Londra vuole aprire le sue porte all’Africa e il Commonwealth (oggi conta 21 paesi africani) potrebbe diventare la chiave di volta. Ma non solo. Nelle strategie di Londra rientra anche il contrasto alla Cina e in Africa la sfida sembra quasi improba. Ciò era negli intenti dell’ex premier Boris Johnson, ma ribaditi dall’attuale prima ministra, Liz Truss, che è stata molto chiara.
Il Regno Unito deve aumentare l’interscambio commerciale con i paesi del Commonwealth per contrastare la “grave minaccia della Cina ai nostri valori e al nostro modo di vivere”, e firmare accordi commerciali con “procedure accelerate” con gli Stati così da aiutare il Regno Unito e altre democrazie a “vincere la lotta contro gli stati autoritari”.
Truss ritiene che legami economici più stretti aiuteranno ad annullare lo schema della Belt and road della Cina in base alla quale Pechino ha finanziato progetti in dozzine di paesi in via di sviluppo che si sono rivelati come una “coercizione economica”.
Il Commonwealth è il più grande gruppo di nazioni che non coinvolge la Russia o la Cina e gli conferisce, sono parole della Truss, “un peso crescente sulla scena mondiale”. Quanto può valere entrare nell’ormai grande famiglia? Secondo Patricia Scotland, segretario generale dell’organizzazione nata sulle ceneri dell’impero britannico e andata ormai oltre le ex colonie di Londra, già oggi il commercio tra i paesi membri vale 700 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo, anche guardando gli ultimi ingressi, Togo e Gabon, è di superare i 2 trilioni di dollari entro il 2030.
Il Commonwealth è un’organizzazione che conta 56 nazioni per un totale di 2,5 miliardi di abitanti, con un Prodotto interno lordo che si prevede salirà a 19,5 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni.
Dati gli obiettivi che si prefigge è evidente che qualsiasi stato è ben accetto. “Il Commonwealth – ha spiegato Scotland – ha iniziato con otto nazioni nel 1949, è cresciuta fino a raggiungere 56 nazioni. La nostra continua crescita, al di là della nostra storia, riflette i vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e la forza della nostra nazione. Sono entusiasta di vedere questi vivaci paesi unirsi alla famiglia e dedicarsi ai valori e alle aspirazioni della nostra Carta”.
È del tutto evidente che la “Carta”, oggi, conta ben poco. Se l’organizzazione dovesse tenere fede ai suoi principi non potrebbe accettare nelle sue file paesi come il Gabon e il Togo che non hanno nulla a che fare con una democrazia moderna.
Il Gabon più che uno Stato è una monarchia governata da sempre dalla dinastia dei Bongo Ondimba, padre e figlio, stiamo parlando di oltre cinquant’anni di regno. Ma anche il Togo non è da meno. L’attuale presidente, Faure Gnassingbè detiene il potere dal 2005, ma lo ha eredito dal padre che lo gestiva in maniera dittatoriale dal colpo di stato del 1967.
Ma anche il Rwanda, che ha ospitato l’ultimo vertice del Commonwealth a fine giugno 2022, non sarebbe un paese “idoneo”, perché nelle sue carceri sono ancora detenuti oppositori, giornalisti indipendenti e youtuber critici con le autorità ruandesi. Paul Kagame è presidente del Rwanda dal 1994 quando entro’ a Kigali da trionfatore e liberatore, ha modificato la Costituzione così da permettergli di governare il paese fino al 2034.
Per non parlare di un altro membro del Commonwealth, il Camerun. Il Paese è “guidato” dal 1982 da Paul Biya, ma se aggiungiamo i sette anni da primo ministro, 1975-1982, è al potere da 47 anni.
Tutto ciò rende evidente che i principi della “Carta” sono stati messi un po’ da parte per fare spazio agli interessi economici. Con l’uscita dall’Unione europea, Londra sembra avere mani libere, tanto da accettare nell’organizzazione membri che non hanno legami storici con il Regno Unito.
“In passato alcuni paesi africani non avevano relazioni con i paesi del Pacifico o con i paesi anglofoni”, ha spiegato il ministro degli Esteri del Gabon – ex colonia francese – Michael Moussa-Adamo, ma ora “ci stiamo allargando e stiamo ottenendo nuovi partner internazionali, rafforzando la nostra economia”.
Il Gabon, che si affaccia sul Golfo di Guinea, è un paese con una superfice boscosa molto rilevante ed è destinato a svolgere un ruolo importante nel commercio dei crediti di carbonio per combattere il cambiamento climatico. E questo, per Londra, è un vantaggio non da poco. Ma i principi fondativi del Commonwealth sono un’altra cosa, si possono mettere da parte.