Tutti conoscono per sentito dire, la commedia dell’arte, ma quanti possono dire di conoscerla approfonditamente? Sicuramente pochi rispetto a quanto si dovrebbe, non solo perché la commedia dell’arte nasce in Italia ed è la base della nostra cultura, ma soprattutto perché da li parte quello che poi nel tempo è divenuto il nostro teatro. Il ruolo della maschera va oltre il nostro immaginario comune, non è soltanto un personaggio con determinate caratteristiche fisiche e psicologiche, ma in ognuna si può trovare una caratteristica di ognuno di noi, che va soltanto conosciuta e cercata.
In occasione dell’opera in atto unico “Le nozze di Arlecchino” andato in scena il 15 ottobre presso l’AcmeStudio di Ladispoli, incontriamo l’autore e il regista di quest’opera eccezionale che ha fatto il giro del mondo e che ancora oggi riscuote successo dopo più di venticinque anni dalla prima. Mario Gallo, l’artista più acclamato della commedia dell’arte che riscuote fama internazionale per la sua capacità di coniugare tradizione e innovazione, ai nostri microfoni ci racconta con semplicità quel grande mistero che si chiama teatro.
La commedia dell’arte nasce nel 1500 e dura fino alla metà 1700, con la commedia di Goldoni, cambia volto. Nella sua commedia dell’arte, che porta sui palcoscenici di tutto il mondo a cosa si ispira di più, a quella originale o a quella goldoniana? Con la riforma di Goldoni, non è più permesso improvvisare e pertanto gli attori devono per forza imparare le battute a memoria. La mia commedia dell’arte non si rifà al contesto goldoniano, ma prende ispirazione dalla prima versione quella che va da metà del 500 fino al 600, secondo me la parte più interessante in quanto si ispira a quello che sento e dove le maschere non sono fatte in serie, ma sono artigianali adoperando vari materiali come il cuoio. Personalmente mi ispiro ad una commedia dell’arte che fa parte dei nostri antenati, nella parte primordiale della sua formazione. E’ una commedia ancestrale sia nella forma che nei contenuti, ponendo in prima linea la ricerca, lavorando insieme il mimo, il clown e la commedia dell’arte.
Com’è iniziato il suo amore per la commedia dell’arte? L’amore nasce da piccolo quando ancora la Rai, nel periodo carnevalesco, trasmetteva le commedie di Goldoni. Mi sono appassionato da subito alla figura di “Arlecchino” e quando poi quando ho iniziato la mia carriera di attore nel lontano 1989, ho iniziato a lavorare con i vari linguaggi. I miei maestri mi hanno sempre insegnato che per essere un bravo attore, in modo particolare per quello di teatro, bisogna conoscere più linguaggi che permettono di esprimere i propri sentimenti e le proprie sensazioni da portare in scena. Ciò che mi è stato insegnato dai miei maestri l’ho riscontrato nel tempo nei miei percorsi di ricerca sulla commedia dell’arte. Il mio Arlecchino non è un Arlecchino stereotipato e non appartiene ne alla tradizione ne a quello di Strehler, ma è un qualcosa in continua ricerca attraverso il mio tempo di quelli che possono essere gli elementi della commedia dell’arte innovativi non dimenticando il passato.
Lei è un artista da mille sfaccettature, si sente più regista o più attore? Mi sento un po’ tutto, perché tutto mi appassiona. Io sono mascheraio, io scrivo i miei testi oppure rielaboro quelli già esistenti, ma lavoro sempre su improvvisazione. E’ una passione continua e un puro divertimento quando vado a mettere in scena uno spettacolo. Un divertimento che si divide in tutte queste mie forme, attraverso essere mascheraio, tramite essere regista, tramite essere attore. Ci sono momenti che mi piace solo fare l’attore, mi piace essere diretto per scoprire cose nuove di me stesso, una continua evoluzione attraverso di quello che si è e degli altri.
Quale personaggio della commedia dell’arte le è più caro? Nella mia formazione ho lavorato con tutti i caratteri, ma poi mi sono focalizzato su Arlecchino che è quello che più mi appartiene, come persona, nella vita quotidiana, come amore per la vita, amore per l’arte, amore per gli altri, amore di vivere ed è il carattere che più si avvicina a questo mio sentire.
“Le nozze di Arlecchino” che sono andate in scena sabato 15 ottobre a Ladispoli, come può raccontarle, anche facendo riferimento al dietro le quinte di un’opera teatrale? Questo spettacolo nasce nel 1995 e ad oggi conta più di 300 repliche, l’abbiamo portato in giro in Italia e nel mondo. E’ uno spettacolo che funziona perché ha una drammaturgia molto semplice, ma anche molto forte. Il canovaccio ha una sequenza di schemi sulle quali poi gli attori lo portano in scena, tramite l’improvvisazione. In questa sua narrazione racconta per la prima volta l’incontro fra Re Arlecchino e la Fata Morgana, dal buon esito dell’appuntamento fra i due sarà assicurato buon auspicio per tutta la comunità. Dall’incontro delle due maschere, ho trasformato questo canovaccio, nell’incontro fra un uomo e una donna nella nostra società contemporanea cercando di mettere in luce in modo ironico, quelli che sono i conflitti interni della coppia, come l’incomunicabilità, il desiderio di stare insieme, ma nel contempo cercando di difendere sempre ognuno le proprie individualità. In sintesi, portare alla luce, tutti quei conflitti che nascono all’interno di una coppia cercando di esprimerli attraverso allegria e comicità, ma sempre in chiave poetica. In questa idea poi si aggiunge come esprimere questi due contenuti: tradizione e innovazione. Per tradizione si intendono i riti propiziatori, l’Arlecchino e la Fata Morgana; l’innovazione è data dai conflitti della coppia. Come esprimere questi due elementi? Attraverso diversi linguaggi, come il mimo, il clown e la commedia dell’arte.
Come ha unito il mimo, il clown e la commedia dell’arte? Cosa li accomuna? Il clown e il mimo sono all’interno della commedia dell’arte. Il mimo e il clown, sono tecniche che fanno parte dello stesso ceppo di formazione, entrambe hanno le maschere dipinte sul viso e lavorano molto sull’esagerazione, ed in questo modo hanno la possibilità di arrivare ancora di più al pubblico attraverso l’espressione del corpo. L’attore che lavora con la maschera della commedia dell’arte, ha bisogno di un’enorme energia corporea in quanto una volta indossata non ha più la possibilità di utilizzare il viso come elemento espressivo.
Per i vostri spettacoli avete deciso di creare da soli i costumi e le maschere perché questa scelta? Per l’attore è formazione e grande soddisfazione imparando ad essere completo, a gestire la propria arte, la propria personalità, la propria vita. Conosce e gestisce gli elementi che fanno parte del teatro, assimilandoli, studiandoli e poi interpretandoli. Andare in scena con il costume auto prodotto dà molta più soddisfazione di quello creato da un’altra persona, in quanto in quella maschera c’è tutto il vissuto personale, estetico ed artistico.
In conclusione, quali sono i suoi progetti futuri? In questi giorni dal 18 al 21 ottobre sempre nello spazio di AcmeStudio a Ladispoli curato da Sergio Tanzilli, che ci ha ospitato con lo spettacolo, è stata allestita una mostra sulle maschere della commedia dell’arte. Venerdì 21 alle 21 la mostra si conclude con una conferenza dal titolo “L’arte scenica della maschera tra tradizione e innovazione”, dove farò una conferenza informale non accademica, una sorta di conferenza spettacolo dove spiegherò, ma nel contempo farò vedere, l’uso della maschera. Credo che sia un modo per coinvolgere il pubblico ed avvicinarli alla tradizione che molti non conoscono e forse questa è l’occasione per capire in modo semplice il concetto.
Eleonora Francescucci