Dal 4 al 16 ottobre al Teatro de’ Servi a Roma è andata in scena una commedia inedita, giovane e attuale, ambientata a Napoli negli anni 2000, scritta da Bernardino De Bernardis con la Regia di Marco Simeoli. Il cast formato da un gruppo di talentuosi giovani attori, ha tenuto incollato il pubblico per tutto il periodo collezionando repliche, sold out, risate, lacrime e tanti applausi.
“E vissero felici e colpevoli” è una commedia che, dietro l’ilarità che trasmette a primo impatto, rende il pubblico, sin da subito, coinvolto nelle emozioni dei cinque ragazzi. Si racconta della vita reale, di un riformatorio, un posto dove i ragazzi vengono rieducati, ma soprattutto un posto dove bisogna fare i conti con le proprie paure e i propri sensi di colpa. Essersi macchiati in giovane età di un crimine, nonostante molto spesso l’aria da spavaldi, non è facile da digerire e ogni ragazzo a modo suo racconta la propria difficoltà nel cammino chiamato vita.
Incontriamo l’autore di questa magnifica drammaturgia, che ci fa percepire dalle sue parole, quanto sia stata voluta e poi magistralmente interpretata una parte molto difficile come quella dell’ispettore Marzullo.
Bernardino De Bernardis, sceneggiatore, regista e attore, quando nasce la tua passione per il teatro? Sembra banale, ma direi che essere nato a Napoli in qualche modo è stato un punto di partenza con cui confrontarsi, visto che questa città è un teatro a cielo aperto. Sono orgoglioso di essere partenopeo, perché ho avuto modo di avvicinarmi sin da subito al mondo del teatro e poi fondamentalmente perché per me è stato il mezzo che mi ha permesso di riuscire ad essere molto più vero rispetto a quanto potrei essere nella quotidianità. Ricordo che un amico mi chiese il motivo per il quale volessi fare l’attore e la mia risposta fu «perché mi sono stancato di recitare a vita».
Il varietà caratterizza molto le tue opere, puoi spiegarci il tuo modo di vederlo ed interpretarlo, anche contrapponendolo o avvicinandolo a quello contemporaneo? Mi piace molto la contaminazione quasi sistematica fra l’elemento comico e l’elemento drammatico cercando di far si che l’elemento comico sia al servizio di quello drammatico senza che sia fine a se stesso. Per ammiccare semplicemente alla battuta che ci può essere ed è giusto che ci sia, ma allo stesso tempo l’obiettivo è quello di cercare in fase di scrittura di mettere la comicità a servizio dell’elemento drammatico e viceversa.
Nelle tue opere che spesso richiamano l’umorismo tipico della commedia italiana, quanto si portano dietro la cultura della commedia dell’arte originale e goldoniana? Noi italiani abbiamo un grande patrimonio: il teatro. Con tutte le sue sfaccettature lo assorbiamo inconsapevolmente, nonostante spesso non venga studiato approfonditamente in tutti i suoi stili. La commedia portata in scena e che si è conclusa al Teatro de’ Servi a Roma, qualche giorno fa, dal titolo “e vissero felici e colpevoli” fa riferimento anche alla commedia antica, in particolare a quella greca di Aristofane che è stata rivisitata in chiave “commedia dell’arte” inserita poi in un contesto attuale.
Lei è considerato il “maestro dell’umorismo della commedia teatrale italiana” quanto si rispecchia in questa affermazione? Questa affermazione mi fa molto piacere, in quanto sono convinto che ognuno di noi è sempre frutto di qualcosa. Essendo di origine napoletana, il mio riferimento in campo artistico è senz’altro il grande Massimo Troisi, nonostante nella sua vita e nella sua carriera non abbia avuto la possibilità di avere un percorso degno e giusto che avrebbe meritato. In Massimo, vedo quell’anima semplice, quella dolcezza e quella debolezza dalla quale ne traeva la sua forza. Lo considero l’antieroe per eccellenza e in qualche modo, mi identifico nell’imperfezione che diventa poi un motivo di pregio.
Nelle tue commedie vediamo spesso Napoli come sfondo, una città che senza dubbio è ricca di teatralità e che ha dato i natali ai più grandi attori, ma oltre al fatto di essere originario di questa città, cosa ti spinge a scegliere lei piuttosto che altre città italiane? Ognuno di noi partendo dalla propria origine ha di base due lingue l’italiano e il dialetto. Dal mio punto di vista, il dialetto è “la lingua del cuore” in quanto permette di esprimere in maniera immediata ed istintiva un sentimento. Per esprimere determinati concetti, personalmente mi trovo più a mio agio, ovvero nella mia zona di confort a scrivere in dialetto, senza mancare di rispetto alla lingua italiana. Il linguaggio che più esprime la “coloritura” di un sentimento, per me è il dialetto.
Lo spettacolo che si è appena concluso “e vissero felici e colpevoli” si svolge in un riformatorio in periferia di Napoli, dove i protagonisti sono costretti a confrontarsi con se stessi. In realtà è una situazione veramente accaduta oppure è solo frutto di fantasia? La storia raccontata non riguarda nessuno che ho personalmente conosciuto, ho scritto questa commedia, perché volevo trattare il tema della colpa e più precisamente del senso di colpa. Il carcere in generale e soprattutto nel riformatorio in modo particolare, questo argomento è molto accentuato. Pensando ad un ragazzo di diciotto anni che abbia già commesso delle cose sbagliate, sono convinto e consapevole che probabilmente oltre ad esserci una componente di responsabilità dell’interessato, l’ambiente dove ha vissuto ha in qualche modo influito a determinare un esito di questo tipo. Senza voler assolutamente giustificare, bisogna prendere coscienza che se in giovane età si fanno dei reati così gravi da rinchiudere un ragazzo in riformatorio, vuol dire che nel processo che lo porta all’esito finale più drammatico, c’è stata in qualche modo una responsabilità da parte dell’ambiente esterno.
Nel riformatorio i ragazzi stanno allestendo uno spettacolo teatrale, la commedia “Gli uccelli” di Aristofane. Cosa c’è dietro la scelta di questa commedia rispetto magari ad un’altra con toni più leggeri? La scelta di Aristofane e principalmente su “Gli uccelli” è stata fatta, perché mi piaceva l’idea della concretizzazione di un sogno utopico di realizzare una cittadella ideale che si svincolasse dalle dinamiche che avvenivano sulla terra. Il sogno di arrivare al cielo, ma non potendolo realizzare la decisione di collocare questa cittadella a metà strada, fra cielo e terra, poteva essere la scelta migliore. L’esito finale della commedia in qualche modo dimostra che questa utopia che tutti siamo chiamati a cercare, non viene raggiunta, ma che comunque l’obiettivo di ricercare il riscatto nella vita deve essere comunque perseguibile. Nella commedia “e vissero felici e colpevoli” la scena utopica de “Gli uccelli” è stata rappresentata con una componente scenografica molto impattante ed è stato ricercato l’allestimento più congeniale con il tipo di percorso che volevo far fare ai ragazzi all’interno della commedia.
Rispetto ad altre sue sceneggiature che lei ha scritto, “e vissero felici e colpevoli” in cosa si differiscono, oppure se ci sono delle similitudini quali sono? Nelle altre sceneggiature ho trattato dei temi più a carattere sociale come “Gli immigrati brava gente” dove si parlava di immigrazione oppure “Non rubate i sogni” dove c’era il discorso della criminalità organizzata. In questa commedia invece ho voluto fare un discorso molto più filosofico perché ruota intorno alla componente del libero arbitrio, alla domanda: quanto siamo veramente liberi di decidere l’esito della nostra vita? All’interno della commedia c’è la scena di una partita a poker, nella quale in maniera metaforica ci sono carte che rappresentano le condizioni oggettive di partenza, le predisposizioni che ognuno ha, i pregi e i difetti, altre che rappresentano il tempo, ovvero quando si nasce e quelle che rappresentano il luogo, ovvero dove si vive e proprio quest’ultime esprimono il libero arbitrio che alla fine stabiliscono l’esito della propria vita, una sorta di sliding door, che in base a cosa si sceglie il destino cambia.
Per concludere, dopo questa commedia, ci sarà un breve riposo da parte tua o già stai lavorando ad una nuova opera? Al momento non ho nulla in programma come autore, in quanto per scrivere qualcosa che mi prenda sul serio devo essere ispirato, solo in quel momento mi butto nella scrittura. Non mi piace scrivere a comando o su un tema impostato, è come se tradissi la fiducia del mio pubblico, in quanto se si fanno le cose forzate inevitabilmente non esce nulla di positivo. Amo scrivere in maniera spontanea e con il cuore in modo da essere vero e sincero con me stesso e automaticamente con gli altri.
Eleonora Francescucci