Gli eroi veri pare non invecchino mai. “Pare” perché anche se reali, veramente esistiti, fanno parte del mondo delle cose che appaiono. Sono uno stimolo talmente forte dell’immaginazione che sembrano non piegarsi mai alle leggi della temporalità. Non poteva essere che così anche per Diabolik.
È stato un pioniere ed ha vinto la sua pretesa di rimanere in simpatia nonostante tutta la sua negatività ai valori affermati tra tutte le persone: non fare del male a nessuno, non rubare, non mentire. Ma a ben guardare i sacri vincoli contraffatti da Diabolik finiscono qui. Sono esaltati invece altri valori come la lealtà, la fedeltà, la capacità di perseguire fino in fondo i propri obiettivi, la genialità, la capacità di costruire un proprio mondo nel quale non essere mai in crisi, non farsi mai corrompere dalla società e dalle deviazioni più ricorrenti. Le cosiddette deviazioni sono quelle menzionate e frutto di una propria autonoma erogazione.
Ed è così che l’immagine di Diabolik è rimasta vincente. Un po’ meno nel cinema dove ci si sarebbe aspettati un’affermazione più forte. Ricordiamo solo un film totalmente denigrato da critica e pubblico nel 1968 e diretto da Mario Bava ma che contava un cast con Michel Piccoli nei panni di Ginko e l’immensa Marisa Mell, ma anche Adolfo Celi come improbabile cattivissimo. Il resto è produzione recente, la cui fortuna è stata funestata dagli stati di allerta che si sono diffusi a causa della pandemia. Si è aperto col documentario Diabolik sono io, poi coi Manetti Bros alla regia: Diabolik e Ginko all’attacco.
Il resto più propriamente è letteratura fumettistica. Walter, il primo volto in borghese del re del crimine, esordisce come uomo spigliato e determinato nei furti fino a conoscere una rapida evoluzione nella qualità dei suoi atti criminali. Il salto qualitativo lo fa subito quando gli si accosta un nemico giurato, l’ispettore Ginko, e una donna, Eva Kant, tanto da fugare immediatamente i sospetti di omosessualità che hanno afflitto tanti eroi del fumetto prima di lui.
La forza di un eroe consiste nel non avere punti deboli. Diabolik non li ha. Non ha una banda, non ha complici che possono tradirlo. Ha una donna, ma è in effetti il suo punto di forza perché va spesso a toglierlo dai guai. Senza di lei le sue storie sarebbero finite da un pezzo, per noia ma anche per esaurimento vena creativa.
Diabolik si affida tutto alla tecnologia. La sua è una mente tecnica. Potrebbe rappresentare un’esemplificazione del trionfo del mondo della tecnica, quello paventato da Martin Heidegger. E lui ne è emblema perché nell’assenza di sentimenti (tranne che in rare occasioni dove vincono anche i valori come fedeltà e impegno alla parola presa) e nel trionfo delle sue architetture comportamentali e strutturali, il singolo, lui, il genio del male, riesce a vincere sugli altri. Non è però un asociale. La sua, in effetti, è una condizione imposta. Un monachesimo obbligato dalla necessità di difendersi dai molti nemici che sono rappresentati dall’ordinaria società.
Va detto però che nella sua narrazione la genialità delle sorelle Giussani, Angela e Luciana, è stata quella di impostare il tema narrativo tutto dall’ordinaria società di persone che vivono la loro vita. Diabolik si pone come sorpresa a loro, ma anche al lettore. È così che non riesce a dare mai punti di riferimento. È così che si afferma “sempre vincente” – come recita esplicitamente una delle sue moltissime storie.
E forse il segreto del suo grande successo sta proprio qui. Come altri suoi coevi fumettistici è sempre vincente. Quello che vorrebbero essere i suoi lettori.