Wired.it – La caccia a un vaccino contro l’Hiv ha una lunga storia, e costellata da fallimenti. Diverse caratteristiche del virus rendono infatti complesso raggiungere l’obbiettivo e la giornata mondiale dell’Aids, come ogni anno, è stata l’occasione per fare il punto su quella che probabilmente è la più lunga, e drammatica, epidemia dell’era moderna. Un bilancio fatto inevitabilmente di luci e di ombre. Con sforzi che andrebbero moltiplicati sul piano della prevenzione, visto che i nuovi casi di Hiv continuano purtroppo ad aumentare, in particolare nelle aree più povere del pianeta. Ma che vede anche continui successi sul piano terapeutico: oggi l’aspettativa di vita di un sieropositivo in terapia antiretrovirale è paragonabile infatti a quella di una persona sana; e i nuovi farmaci long acting stanno finalmente rivoluzionando la quotidianità dei pazienti. Dove la ricerca continua a faticare, invece, è nello sviluppo di un vaccino, traguardo che rappresenterebbe forse l’unica, vera, strada per arrivare all’eradicazione della malattia. Anche in questo campo, però, qualcosa sembra muoversi: sull’ultimo numero di Science è appena stata presentata una nuova strategia vaccinale che sembra, finalmente, dare risultati promettenti. Vediamo di cosa si tratta.
Un obbiettivo difficile
Hiv è un retrovirus, cioè di un patogeno in grado di inserire il proprio materiale genetico nel dna delle nostre cellule, dove può rimanere dormiente per mesi o anni, e da dove è pressoché impossibile eliminarlo. Una volta che l’infezione ha avuto inizio, insomma, non c’è vaccino che tenga. Un vaccino contro l’Hiv per risultare utile deve quindi necessariamente essere un vaccino sterilizzante, capace cioè di azzerare il rischio di infezione (e non solo di evitare la malattia o mitigarne i sintomi). E come abbiamo scoperto con i vaccini contro Covid 19, non è affatto semplice ottenere un simile vaccino.
La caccia a un vaccino contro l’Hiv ha una lunga storia, e costellata da fallimenti. Diverse caratteristiche del virus rendono infatti complesso raggiungere l’obbiettivo e la giornata mondiale dell’Aids, come ogni anno, è stata l’occasione per fare il punto su quella che probabilmente è la più lunga, e drammatica, epidemia dell’era moderna. Un bilancio fatto inevitabilmente di luci e di ombre. Con sforzi che andrebbero moltiplicati sul piano della prevenzione, visto che i nuovi casi di Hiv continuano purtroppo ad aumentare, in particolare nelle aree più povere del pianeta. Ma che vede anche continui successi sul piano terapeutico: oggi l’aspettativa di vita di un sieropositivo in terapia antiretrovirale è paragonabile infatti a quella di una persona sana; e i nuovi farmaci long acting stanno finalmente rivoluzionando la quotidianità dei pazienti. Dove la ricerca continua a faticare, invece, è nello sviluppo di un vaccino, traguardo che rappresenterebbe forse l’unica, vera, strada per arrivare all’eradicazione della malattia. Anche in questo campo, però, qualcosa sembra muoversi: sull’ultimo numero di Science è appena stata presentata una nuova strategia vaccinale che sembra, finalmente, dare risultati promettenti. Vediamo di cosa si tratta.
Un obbiettivo difficile
Hiv è un retrovirus, cioè di un patogeno in grado di inserire il proprio materiale genetico nel dna delle nostre cellule, dove può rimanere dormiente per mesi o anni, e da dove è pressoché impossibile eliminarlo. Una volta che l’infezione ha avuto inizio, insomma, non c’è vaccino che tenga. Un vaccino contro l’Hiv per risultare utile deve quindi necessariamente essere un vaccino sterilizzante, capace cioè di azzerare il rischio di infezione (e non solo di evitare la malattia o mitigarne i sintomi). E come abbiamo scoperto con i vaccini contro Covid 19, non è affatto semplice ottenere un simile vaccino.
Ogni linfocita B produce un diverso tipo di anticorpo, con un’efficacia differente, e indirizzato contro un antigene diverso. Nel caso dell’Hiv, molti di questi anticorpi riconoscono solamente un singolo ceppo del virus e quindi, anche se si rivelassero efficaci, non sarebbero sarebbero utili per proteggere dal rischio di infezione, vista l’elevata variabilità genetica dell’Hiv. Un piccolo sottogruppo di anticorpi, chiamati anticorpi neutralizzanti a largo spettro o Broadly neutralizing antibodies, è invece in grado di riconoscere e neutralizzare la quasi totalità dei ceppi di Hiv, perché ha come bersaglio alcune porzioni del virus che tendono ad avere una bassissima variabilità.
Il problema è che questi anticorpi si sviluppano di rado durante le infezioni, e i linfociti da cui hanno origine, quella che in inglese viene definita germline, sono relativamente rari. È qui che nasce il concetto di germline targeting stimolando i linfociti B che hanno le giuste caratteristiche per essere precursori degli anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro contro l’Hiv dovrebbe essere possibile, un po’ alla volta, aumentarne le riserve nell’organismo. A quel punto, somministrando vaccini contenenti antigeni via via più simili al virus originale, si potrebbero spingere i linfociti B a mutare, migliorando la loro specificità, fino ad ottenere la quantità desiderata di anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro, che a quel punto difenderebbero l’organismo dal rischio di infezione.
Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. Uno degli anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro contro l’Hiv più studiato, conosciuto come VRC01, è stato isolato nell’organismo di una persona che ha impiegato 15 anni per produrlo. Con somministrazioni ripetute di booster con antigeni sempre più simili all’originale il processo potrebbe essere più rapido, ma si corre il rischio che durante il percorso i linfociti B prendano la strada sbagliata, e finiscano per non produrre mai gli anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro desiderati.
Almeno il primo passo, comunque, sembra andato a buon fine. Sulle pagine di Science viene descritto infatti un piccolo trial clinico di fase 1, in cui un vaccino sperimentale noto come eOD-GT8 si è rivelato sicuro, e ha aumentato efficacemente la quantità di linfociti B precursori degli anticorpi neutralizzanti ad ampio spettro nel 97% dei partecipanti. Si tratta evidentemente solo di un primo passo, ma di quelli fondamentali: la strategia del germline targeting può funzionare, e questa è già una scoperta di importanza vitale. Resta da dimostrare, ovviamente, che una successiva strategia di booster mirati permetterà di arrivare a rendere immuni dall’infezione da Hiv.
Per farlo, realisticamente, serviranno ancora anni di lavoro. E bisogna ammettere che se anche funzionasse, un vaccino che richiede booster successivi per uno o due anni, come quello che hanno in mente gli autori dello studio, probabilmente sarebbe difficile da utilizzare nelle zone, come l’Africa sub-sahariana, dove ce ne sarebbe invece più bisogno. Ma la strada è promettente, ed è scontato che le ricerche andranno avanti, non solo per l’Hiv, ma a questo punto anche per molte altre malattie, come l’influenza, verso cui ancora non siamo riusciti a sviluppare un vaccino.