Direttamente o indirettamente la Serbia è al centro dei principali eventi recenti nei Balcani occidentali: una nuova escalation di tensione in Kosovo, le elezioni in Bosnia-Erzegovina e Montenegro e la formazione del governo a Belgrado. Tutto questo nel contesto della guerra in Ucraina.
Le elezioni generali in Serbia si sono svolte ad aprile ma l’uomo forte del Paese, il presidente Aleksandar Vučić, ha posticipato a ottobre la nomina del nuovo governo per mantenere un profilo basso nella crisi ucraina e respingere le pressioni occidentali di adozione delle sanzioni contro la Russia.
La composizione del nuovo esecutivo riflette la posizione di neutralità perseguita da Vučić. Storicamente protetta della Russia, la Serbia è candidata all’Ue dal 2012. Mantiene buoni rapporti con gli Usa e coltiva relazioni fruttuose con Cina, Turchia e Stati arabi.
La premier Ana Brnabić è stata riconfermata. Ex dirigente d’azienda formatasi all’estero, Brnabić ha intrapreso un programma di digitalizzazione dell’economia serba. Più importante agli occhi di Vučić è il fatto che Brnabić è dichiaratamente omosessuale ed è sostenuta dagli stati scandinavi nella promozione dei diritti LGBT. La conferma di Brnabić permette a Vučić di presentare all’Occidente il suo governo come progressista e promotore dei diritti civili.
Vučić ha anche nominato alla carica di vice primo ministro e ministro degli affari esteri Ivica Dačić, leader del Partito socialista serbo, successore del partito di Slobodan Milosević e longa manus della Russia in Serbia.
La (in)instabilità dei Balcani dipende principalmente dalla Serbia
Sebbene le secessioni del Kosovo nel 1999 e del Montenegro nel 2006 abbiano segnato un’ulteriore fase del processo di disintegrazione della Federazione jugoslava, iniziata con l’indipendenza di Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina negli anni ’90, la Serbia rimane il paese cardine della regione. Con una posizione geografica centrale, il territorio più vasto e la popolazione più numerosa dei Balcani occidentali, la Serbia ha il potere di (de)stabilizzare la regione.
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L’ambizione di Vučić è quella di fare della Serbia una potenza regionale leader in un contesto di stabilità e pace all’interno di un’ampia rete di alleanze internazionali. Egli scommette sul fatto che la neutralità continuerà a fare gli interessi della Serbia.
Con oltre 3 miliardi di euro di sovvenzioni fornite dal 2001, l’Ue è il donatore più generoso di Belgrado, mentre gli Stati Ue sono l’origine di oltre il 70% degli investimenti esteri diretti. Nonostante la sua integrazione economica con il resto dell’Europa e il dominio della NATO nella regione, militarmente la Serbia ha preso un’altra direzione.
Vučić ha ereditato l’adesione del suo Paese al Partenariato per la pace della NATO. Lungi dal denunciare l’accordo, lo ha controbilanciato con mosse che mettono la Serbia in competizione con il blocco occidentale. Nel corso degli anni la Serbia ha acquistato, o ricevuto gratuitamente, un’ampia gamma di rifornimenti militari russi, e dal 2011 ospita un centro umanitario russo che alcuni affermano essere una base militare camuffata. All’inizio di quest’anno ha acquistato droni cinesi e chiesto alla Turchia di venderle i suoi terribili Bayraktar.
Per premiare Vučić del suo atteggiamento amichevole, lo scorso maggio il presidente russo Vladimir Putin ha accettato di fornire gas a Belgrado per tre anni a prezzo scontato.
Mentre Vučić svolge tatticamente il ruolo di moderatore che persegue la stabilità della regione, l’obiettivo a lungo termine della Serbia è quello di costruire una “Grande Serbia”. I confini geografici e la forma istituzionale di questa entità non sono ancora determinati. Ciò che è certo è che la Repubblica di Serbia funge da polo di attrazione per le circostanti regioni a popolazione serba, come il Kosovo settentrionale, la Republika Srpska (una delle due entità politico-amministrative di Bosnia-Erzegovina, a maggioranza serba) e parte del Montenegro. Le minacce allo status quo vengono dalla realtà sul campo. Questo spiega anche gli stretti legami che Vučić ha stabilito con il turco Erdogan e l’ungherese Orban.
L’irrisolta statualità del Kosovo
La prima questione spinosa è il Kosovo. Dopo l’operazione militare della NATO nel 1999 e la dichiarazione unilaterale di indipendenza nel 2008, l’ex provincia serba non è riconosciuta da circa 80 membri delle Nazioni Unite, tra cui Russia e Cina, che hanno potere di veto nel Consiglio di sicurezza, e cinque membri dell’Ue.
Dei circa 120.000 serbi che vivono in Kosovo, quasi 50.000 risiedono nei quattro comuni a maggioranza serba del nord del Paese. Confinante con la Serbia, il nord del Kosovo è stato finora una terra di nessuno, con Pristina incapace di esercitare la sua autorità e Belgrado che la amministra de facto.
Il raggiungimento di una soluzione definitiva era sembrato possibile nel 2013, quando Vučić e il suo omologo kosovaro Hashim Thaci firmarono l’Accordo di Bruxelles, il quale avviò un processo che avrebbe dovuto portare alla creazione dell’Associazione autonoma dei comuni serbi e al definitivo riconoscimento del Kosovo da parte della Serbia. Nessuno dei due risultati è stato finora raggiunto, a causa dell’opposizione di Pristina alla costituzione dell’Associazione e del rifiuto di Belgrado di riconoscere l’indipendenza di Pristina senza garanzie formali sulla tutela dei diritti dei serbi. Gli albanesi del Kosovo temono che l’Associazione dei comuni serbi darebbe vita ad una “Republika Srpska” del Kosovo che potrebbe sabotare l’autorità di Pristina con atti di sabotaggio.
L’ascesa al potere di Albin Kurti in Kosovo nel 2021 ha reso Pristina meno incline al compromesso. La decisione del governo kosovaro di non consentire più il transito alle auto con targa serba appartenenti ai serbi residenti in Kosovo ha suscitato una dura opposizione da parte dei serbi, che in segno di protesta hanno ritirato i loro rappresentanti dalle istituzioni kosovare. La decisione di Kurti di imporre la sostituzione delle targhe serbe con quelle kosovare entro aprile 2023 non è stata sostenuta né dall’Ue né dagli Usa, che hanno chiesto a Kurti di prorogare il termine per la reimmatricolazione dei veicoli.
Un interessante sondaggio condotto nel 2019 in Kosovo e Albania ha rilevato che la maggioranza degli albanesi in entrambi i paesi, così come la maggioranza dei serbo-kosovari, sarebbe favorevole a un accordo in base al quale il Kosovo verrebbe unito all’Albania ed il Kosovo settentrionale alla Serbia. Una tale soluzione non sarebbe impossibile da raggiungere se opportunamente preparata diplomaticamente, politicamente ed economicamente. Non sorprende che Kurti, così come il primo ministro albanese Edi Rama, abbiano entrambi espresso sostegno a una federazione kosovaro-albanese.
L’obsoleto accordo di Dayton e la Bosnia-Erzegovina agonizzante
L’accordo di Dayton imposto dagli Usa ha messo fine agli spargimenti di sangue della guerra di Bosnia-Erzegovina del 1992-1995 ma ha creato uno stato disfunzionale.
Mentre c’è consenso sulla necessità di una revisione della costituzione dello stato, c’è profondo disaccordo sul futuro della sua architettura istituzionale. Da un lato, i bosniacchi vorrebbero un più alto grado di centralizzazione. Dall’altro, i croati mirano a smantellare la Federazione bosniacco-croata per creare un’entità croata, mentre la Republika Srpska aspira alla secessione da Sarajevo.
La sfida più immediata alla sopravvivenza dello stato è posta dalla Republika Srpska e dal suo leader, Milorad Dodik. Nonostante le affermazioni di Vučić secondo cui Belgrado è impegnata per l’integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina, l’anno scorso il parlamento di Banja Luka ha approvato leggi che consentirebbero all’entità serba di ritirarsi dalle forze armate e dalla magistratura statali. La guerra in Ucraina, tuttavia, ha impedito a Dodik di portare a termine il suo piano secessionista.
In questo contesto, all’inizio di ottobre si sono svolte le elezioni per il parlamento, la presidenza e le alte cariche della Federazione bosniacco-croata e della Republika Srpska. I principali partiti nazionalisti (SDA bosniacco, SNSD serbo e HDZ croato) hanno mantenuto il controllo sui principali organi, anche se con margini ridotti rispetto alle precedenti elezioni.
Tutto ciò porta molti a concludere che la questione non è se la Bosnia-Erzegovina si disintegrerà, ma come e quando.
Il Montenegro spaccato
Il piccolo paese adriatico è candidato all’Ue dal 2012. È entrato a far parte della Nato nel 2017 dopo un fallito colpo di stato orchestrato dalla Russia e messo in atto dalle forze filo-serbe nel tentativo di ostacolarne l’accesso nell’alleanza. Dopo le elezioni del 2020, il paese è caduto in una situazione di stallo politico. La crisi attuale è stata determinata da una controversa legge che riconosce le proprietà rivendicate dalla Chiesa ortodossa serba. Le elezioni amministrative tenutesi in ottobre hanno confermato lo stallo.
Il Paese è diviso tra una maggioranza favorevole all’integrazione nella Nato e nell’Ue, un’ampia minoranza filo-serba e filo-russa e una minoranza albanese che cerca di fare da ago della bilancia.
La Serbia non ha mai messo in discussione l’integrità territoriale del Montenegro. Tuttavia, alcuni leader politici di Belgrado chiedono l’introduzione di misure a tutela della minoranza serba.
La guerra in Ucraina e le sue ripercussioni geopolitiche nei Balcani occidentali
La guerra in Ucraina ha aggiunto un nuovo fattore di complicazione. Molti serbi trovano incoerenza tra l’adesione dell’Occidente al principio di autodeterminazione dei popoli quando si è trattato di sostenere la secessione del Kosovo dalla Serbia e l’applicazione del principio di integrità territoriale degli stati per condannare l’annessione della Crimea da parte della Russia.
Il grado di successo o fallimento della Russia in Ucraina avrà un impatto sulle aspirazioni dei serbi. Se la Russia riuscirà a conservare la Crimea e il Donbass, è probabile che la Republika Srpska dichiarerà la secessione e i serbi del Kosovo settentrionale inizieranno una nuova rivolta. Ciò potrebbe incoraggiare le spinte autonomiste dei cantoni croati dell’Erzegovina, delle regioni a maggioranza albanese della Macedonia del Nord e dei serbi di Montenegro.
Il compito dell’Occidente. Una conferenza sui Balcani occidentali
Per disinnescare il rischio di una nuova esplosione di violenza, i paesi europei e gli Stati Uniti dovrebbero riconoscere le specificità culturali sul terreno, accettare che il processo di riorganizzazione dello spazio ex jugoslavo non è terminato e cercare di co-guidarne gli sviluppi insieme alle nazioni della regione. Una volta terminata la guerra in Ucraina, una conferenza internazionale sui Balcani occidentali dovrebbe assumersi l’onere di ridisegnare un assetto geopolitico coerente, sostenibile e durevole.
L’Occidente deve accettare i legami sentimentali dei serbi con la Russia e la loro volontà di preservare la neutralità. Tuttavia, dovrebbe essere anche tracciata una linea rossa. Belgrado deve capire che il suo percorso europeo non è dato per scontato, che la cooperazione militare con Russia e Cina non può varcare determinate soglie e che le minacce all’Europa non saranno tollerate.
Allo stesso tempo, dovrebbero essere rafforzati gli sforzi per includere i paesi dei Balcani occidentali nella famiglia europea. I cittadini della regione devono sentire di avere molto più da guadagnare da un’alleanza con l’Occidente che con Russia, Cina o Turchia. Il nuovo pacchetto di 400 milioni di euro di sovvenzioni per un valore di investimento di 1,2 miliardi di euro, approvato dal vertice Ue-Balcani occidentali di Tirana dei giorni scorsi, è un piccolo passo nella giusta direzione.
Un potenziamento del programma Erasmus+ con i paesi dei Balcani occidentali contribuirebbe ad approfondire i legami tra le giovani generazioni.
Infine, maggiori sforzi dovrebbero essere profusi per la riconciliazione, da perseguire anche attraverso la stesura di una storia condivisa dei tragici eventi delle guerre degli anni ’90 e della Seconda guerra mondiale.
Riadattando una celebre citazione del XIX secolo, “quando la Serbia ha la febbre, i Balcani starnutiscono”. L’Occidente dovrebbe ricordarlo prima che sia troppo tardi.
Gaetano Massara