Secondo i risultati dello studio effettuato dai ricercatori dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp) su imprese e lavoratori, il nostro Paese è stato promosso a metà per la qualità del lavoro: da una parte bene per aziende e lavoratori al Centro Nord, dall’altra male per il Mezzogiorno, giovani e lavoratrici. L’Italia quindi si colloca “in mezzo” tra i Paesi in cui la qualità della vita è più elevata (come i Paesi scandinavi, la Germania, Austria, Svizzera) e i Paesi dell’Est Europa che, al contrario, sono in fondo alla classifica soprattutto per una scarsa protezione nel mercato del lavoro e dell’ambiente lavorativo (Ocse).
Più nello specifico, il 24% dei nostri lavoratori percepisce a rischio la propria salute sul posto di lavoro e questo aspetto è più preoccupante nel Mezzogiorno (28%) e tra i dipendenti pubblici (30%). Inoltre, più di un terzo dei lavoratori (37%) afferma di non avere alcuna flessibilità rispetto all’orario, questo aspetto risulta addirittura più marcato tra le donne (42%) specialmente se dipendenti nel pubblico (50%). Altro elemento di criticità evidenziato dai lavoratori è l’immobilismo nelle carriere professionali, che coinvolge il 69% degli occupati e presenta valori addirittura maggiori tra i dipendenti pubblici e tra i giovani 18-34enni (73%). A questo si aggiunge una crescente routinizzazione delle attività lavorative, che riguarda soprattutto i lavoratori del Mezzogiorno, dove il 71% degli occupati afferma di compiere attività per la maggior parte ripetitive.
L’indagine ha coinvolto oltre 15mila occupati (sopra i 17 anni) e 5 mila imprese sul territorio nazionale ed è stata presentata a Roma durante una giornata di studi presso l’Auditorium dell’Istituto.
“I risultati dell’indagine dimostrano che le imprese che hanno puntato su innovazione, cambiamento organizzativo e buona gestione delle risorse umane sono riuscite a costruire una ‘fortezza virtuosa’ capace di resistere agli shock e di generare un’elevata qualità del lavoro – ha spiegato il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda – Sono, infatti, le imprese capaci di coniugare condivisione e partecipazione delle attività, elevata flessibilità organizzativa, propensione allo smart working e forte orientamento all’innovazione e al cambiamento, che hanno pagato meno lo scotto della recente crisi sanitaria: solo l’11% di esse dichiara di aver subito forti effetti negativi dalla crisi per l’emergenza Covid, rispetto ad una incidenza media nazionale pari quasi al doppio (21%). Le imprese “tradizionali” sono invece quelle che hanno subito gli effetti maggiori”. Ma cosa si può fare?
Per far crescere la qualità del lavoro gli studi indicano che è necessario migliorare la gestione delle risorse umane e puntare sull’innovazione. Chi lo ha già fatto ha visto aumentare la propria competitività nei mercati e la qualità del lavoro per i propri dipendenti. Queste attività sono state ribattezzate dall’Inapp “imprese smart” (intelligenti). Si tratta di imprese caratterizzate da un’ampia partecipazione sia nella pianificazione delle attività (54,1% dei casi), che nella discussione dei cambiamenti organizzativi (73,6%) e attenzione al tema del life work balance (l’81% delle imprese ritiene responsabilità dell’azienda la conciliazione vita privata-lavoro). Tra queste imprese smart l’introduzione di innovazioni ha generato nel ben 85% dei casi un incremento della produttività e nel 78% di fatturato, ma anche un aumento sia del benessere che della motivazione dei lavoratori in circa il 70% dei casi. Inoltre in queste aziende i lavoratori hanno maggior stabilità lavorativa (nel 91% di esse non sono presenti lavoratori a tempo determinato, e nel 78% dei casi il precariato porta alla successiva stabilizzazione).
Nello studio Inapp emergono altre tre categorie di imprese: le “tradizionali di qualità” (50% delle imprese italiane) con un elevata consistenza di lavoratori permanenti, una bassa propensione allo smart working e un discreto livello di innovazione; le “ibride” caratterizzate da un elevato livello di lavoratori a tempo determinato e una bassa propensione al lavoro agile delle attività (20% delle imprese italiane) e, infine, le “resilienti” sia in termini di gestione delle risorse umane che d’innovazione (16% delle imprese italiane).
Erica Lucia Noli